Dialetto ed educazione linguistica tra passato e presente di un rapporto difficile. Werther Romani

Traccia della relazione di Werther Romani Università di Bologna Convegno al dialàtt e la scola“,  27 /11/ 2004 

Villa Smeraldi S. Marino di Bentivoglio

  N B Si precisa che il seguente testo è una semplice “traccia”, che riassume per sommi capi l’ intervento che il prof. Romani, docente dell’Università di Bologna, Dipartimento di Italianistica, ha svolto in modo più argomentato e completo al Convegno. Questo è  testo distribuito ai presenti.

SCUOLA E DIALETTO: STORIA DI UN RAPPORTO DIFFICILE

1) La situazione pre-unitaria

I dialetti sono usati normalmente -sia dagli analfabeti, sia dalle persone colte- nella comunicazione orale (ma c’è anche una, sia pur limitata, letteratura dialettale). L’italiano (sostanzialmente quello dei “classici” codificati dalla “Crusca”) è usato nella scrittura (ma, in certe situazioni, e da una ristrettissima minoranza, anche oralmente).
Nelle scuole ( tenute quasi sempre da religiosi) – ma i primi rudimenti tecnici della lettura e della scrittura vengono dati privatamente in casa o dal parroco- si insegna soprattutto il latino; poco l’italiano , meno che mai il dialetto, che per quasi tutti era la lingua materna. Quindi, in sostanza, il problema di un rapporto conflittuale scuola-dialetto non si poneva.

2) L’ Unità d’ Italia e la questione della lingua.

La spinta risorgimentale verso l’unificazione pèolitica condizione fortemente anche il problema della lingua e del suo insegnamento. L’esigenza di una unificazione anche linguistica, che superi il particolarismo dialettale, è sentita in maniera quasi ossessiva. Adottata ufficialmente (non senza resistenze e con attenuazioni) la soluzione manzoniana, comincia con una lotta accanita contro il “pluralismo” linguistico (specialmente quello lessicale), sentito come un disvalore; da cui l’avversione scolastica per i dialetti, considerati i responsabili dell’analfabetismo degli italiani.
 
3) Il dialetto “malerba”

La dialettofobia dominante, ovviamente, grava soprattutto sulla scuola elementare . a cominciare dai primi programmi, quelli del 1860, continuando con quelli del 1867, del 1888, del 1894, del 1905, è costante il richiamo ai maestri di evitare intrusioni dialettali, sue o dei bambini, di curare la corretta pronuncia , che non deve avere inflessioni dialettali; al dialetto è spesso associata l’idea di trivialità ( da superare “ingentilendo ” i bambini con il corretto italiano).
Il dialetto come come “malerba”, di cui bisogna fare piazza pulita (per fortuna ancora non c’erano i diserbanrti chimici) per poter seminare il grano (la lingua italiana).
Non mancano però voci fuori dal coro. Si tratta in genere di linguisti, glottologi, storici, che hanno una visione più scientifica del problema. Spicca la posizione di I. G. Ascoli, che con straordinaria lungimiranza esprime un concetto attualissimo : il bilinguismo come valore, un patrimonio da difendere e , semmai, da ampliare.

4) Lo sviluppo delle ricerche dialettali. Dialetto e folclore. I programmi del 1923 di G. Lombardo Radice.

Dalle “eccezioni” sopra accennate si sviluppa verso la fine del secolo e nei primi decenni del Novecento un filone di studi che per un momento sembra che possa cambiare anche nella scuola il rapporto sopra descritto fra lingua e dialetto. Nei dialetti si vede depositata l’anima del popolo: tradizioni, folclore, cultura regionale vengono studiate e divulgate con grande, forse anche ingenuo, fervore. Si moltiplicano i vocabolari dialettali, le raccolte di novelle, canti, ecc..Anche la scuola ne risente, sia pure in modo molto limitato, che non capovolge la situazione generale.
Si cerca di convincere gli insegnanti che si può insegnare l’ italiano attraverso il dialetto (cfr. Ernesto Monaci). Il pedagogista più consapevole in questo senso è Giuseppe
Lombardo Radice, che , nel 1923, redige i programmi della scuola elementare (nell’ ambito della riforma Gentile), con precise indicazioni riguardanti l’uso del dialetto in relazione all’apprendimento dell’italiano; in particolare si raccomandano esercizi di traduzione dal dialetto (poesie, racconti, canti popolari, ecc..). sulla base di queste indicazioni abbiamo una vera e propria fioritura di sussidi didattici a livello provinciale.

5) La fascistizzazione della scuola e il radicalizzarsi della dialettofobia.

Il regime fascista, a mano a mano che sviluppa le sue ambizioni “imperiali”, manifesta un’ avversione sempre più esplicita nei riguardi della cultura popolare e dei dialetti, quasi fossero resti di un mondo povero di cui ci si debba vergognare. Nel 1934 i programmi di Lombardo Radice vengono “ritoccati”; sembra poca cosa, ma in realtà vengono svuotati dei loro contenuti più innovativi, sopprimendo ogni riferimento positivo al dialetto. Ritorna (ma nella pratica non era mai veramente sparita) la dottrina della malerba, con forme “repressive” ancora più spinte, in una scuola in cui il dialetto era, invece, ancora lingua materna per la stragrande maggioranza dei bambini.

6) Il dopoguerra. I programmi del ’55. Dal ’55 all’ ’85.

Col ritorno della democrazia le cose non cambiano di molto per ciò che riguarda il problema del dialetto, sempre sentito, sia a scuola sia in famiglia, come un ostacolo all’apprendimento dell’italiano. nei programmi del 1945 il dialetto non è mai nominato. L’ unico riferimento riguarda il maestro, che deve “dare l’esempio della buona lettura, evitando principalmente le inflessioni dialettali”.
Nei programmi del 1955 qualche riferimento c’è, ma non si va al di là di una semplice “tolleranza” iniziale, per tornare poi al tradizionale rifiuto di ogni rapporto.
Come è noto i programmi del ’55 resteranno formalmente in vigore per trent’anni. nel frattempo cambianomolte cose. Con l’istituzione della scuola media obbligatoria nel ‘ 63 vengono al pettine nodi storici fino a quel momento ignorati o sottovalutati, con discussioni che investono direttamente anche la questione di cui stiamo trattando. Il ’63 è anche l’anno in cui esce un libro fondamentale per chi si occupa di lingua e di educazione linguistica. la “Storia linguistica dell’Italia unita” di Tullio De Mauro. Nel ’67 dalla Scuola di Barbiana arriva la “Lettera a una professoressa”. Un amico di don Milani, Mario Lodi, appartenente ( con Bruno Ciari, Albino Bernardini, Gianni Rodari, Giorgio Bini, ecc..) al MCE ( Movimento di Cooperazione Educativa, di ispirazione freinetiana) nel 1970 pubblica “Il paese sbagliato”. Nel 1973 esce la “Grammatica della fantasia ” di Gianni Rodari.
Le scienze linguistiche, intanto, hanno uno uno sviluppo impressionante (riscoperta di Saussure, lo strutturalismo, Chomski, la psico-..socio–..pragmalinguistica, la linguistica testuale, ecc..). Nel 1975 abbiamo un documento didattico fondamentale: le “Dieci tesi per una educazione linguistica democratica” (principalmente opera di De Mauro), che influenza in modo esplicito i nuovi programmi per la scuola media del 1979 e , in modo meno esplicito, gli stessi programmi della scuola elementare del 1985. Si può ben dire che in trent’ anni sono successe molte “rivoluzioni”, che hanno sostanzialmente modificato anche i termini del problema di cui ci stiamo occupando.

7) A che punto siamo?

Sul piano teorico si sono affermati nuovi principi pedagogici, fondati sulla ricerca linguistica ( in particolare sugli studi in ambito glottodidattico), nonchè su forti istanze di ordine socio-culturale:
-L ‘educazione linguistica (così ormai preferiamo chiamare l’insegnamento della lingua) deve fondarsi sulla conoscenza, il rispetto, e, soprattutto, la valorizzazione del patrimonio linguistico (qualunque esso sia) del discente.
-L’ obiettivo, pur sempre primario, dell’acquisizione dell’italiano non solo non è in contrasto con tale valorizzazione, ma se ne avvantaggia: una buona competenza della lingua materna è base fondamentale per l’ acquisizione di una seconda lingua.
-La compresenza di lingue diverse in classe è occasione preziosa di “riflessione linguistica” ( e quindi strumento di sviluppo della competenza e della consapevolezza grammaticale).

Se applichiamo questi principi alla questione del rapporto dialetto-italiano, vediamo quanto sia sbagliata la concezione della “malerba”. Il fatto è, però, che nel frattempo i termini della questione sono cambiati profondamente. Il dialetto come lingua materna non c’è più ( o quasi). Un problema in meno dunque? Dovremmo esserne contenti? In realtà, se così fosse, dovremmo sentirci tutti più poveri. Ma se il dialetto anche non fosse più lingua materna per nessuno, ciò non significa che sia sparito dalla “cultura” del territorio. E’ lì che bisogna cercarlo, studiarlo, valorizzarlo, se vogliamo conoscere e capire le nostre radici, la nostra storia.