Siccità e inadempienze nella gestione dell’acqua, quando c’è.

Articolo di Milena Gabanelli, condiviso da corriere.it del 23 agosto 2022 “Se c’è un tema che deve essere al primo posto dell’agenda politica è la riduzione delle emissioni e la gestione dell’acqua. Ma Roma è lontana dalle campagne dove il terreno si spacca, dalle foglie ustionate delle coltivazioni, dai raccolti dimezzati. E comunque al supermercato si trova sempre tutto, e siccome è tutto più caro la soluzione facile è promettere al consumatore di togliere l’Iva sui prodotti alimentari. «Risposte concrete»: questo è l’inizio e la chiusura di ogni singola dichiarazione di ogni singolo candidato di ogni singolo partito. E quindi cosa intendete fare contro la siccità?
Sono almeno dieci anni che ogni estate guardiamo angosciati i fiumi in secca e la desertificazione che avanza. Giorgia Meloni se ne è accorta a luglio e ha accusato il governo di non aver fatto nulla contro la dispersione delle tubature, di non aver costruito invasi, che da destra a sinistra nessuno vuole sul proprio territorio e li ha contestati pure il Wwf. Fino ad un mese fa i rappresentanti di tutti i partiti hanno detto la loro sul risparmio idrico, sul recupero delle acque reflue, sulla tecnologia applicata all’agricoltura. Poi si è entrati nel vivo della campagna elettorale, e il tema è sparito. La natura intanto fa il suo corso, indifferente a quel che i partiti raccontano alla pancia del Paese.
I numeri del 2022 forniti dal Coldiretti sono questi: causa siccità le imprese agricole hanno perso 6 miliardi di euro. Dal 20 al 30% in meno di grano, dimezzato il raccolto del mais, le regioni più colpite sono Lombardia, Piemonte, Veneto e Emilia Romagna, che rappresentano quasi il 90% dell’intera produzione nazionale. Il crollo del raccolto impatta sulle stalle per la diminuzione della produzione di foraggi, il comparto idroelettrico quest’anno ha toccato la produzione più bassa degli ultimi 20 anni. Al danno economico si aggiunge quello ambientale: bacini scarichi significa meno acqua da turbinare, e quando si spegne una fonte rinnovabile va rimpiazzata da una fonte fossile.

Il distretto del Po è il più grande italiano per dimensione, e con una popolazione che sfiora i 20 milioni di abitanti. La sua acqua e quella dei sui 141 affluenti genera il 40% del Pil italiano fra produzione agricola, industriale, zootecnica, idroelettrica. Il sistema di accumulo e distribuzione, che è stato progettato decenni fa per funzionare con abbondanza d’acqua con alte piovosità, non è mai cambiato. In più il comparto agricolo negli anni ha aumentato la messa in campo di colture a maggior reddito ma anche più idroesigenti. Sta di fatto che la portata media degli ultimi 10 anni è di 1.470 metri cubi al secondo, mentre l’insieme dei diritti di prelievo delle concessioni è di 1.850 metri cubi al secondo. Ne consegue che stiamo utilizzando più acqua di quella disponibile. Il risultato è che per la prima volta l’acqua salata ha risalito il Delta per 40 km, generando un processo di desertificazione irreversibile. Le falde di acqua dolce si stanno trasformando in acqua salmastra e non sono più idonee all’uso agricolo. Su 30.000 ettari di territorio il raccolto è definitivamente compromesso e le aziende hanno chiesto i danni allo Stato per 64 milioni di euro. Si poteva evitare?

L’Osservatorio sulle crisi idriche che riguarda il distretto del fiume Po coinvolge otto regioni. A marzo ha riunito tutti i portatori di interesse (Enel, multiutility, i consorzi di bonifica, le Arpa ecc ) e lanciato un allarme: «attenzione abbiamo un problema con il livello del fiume, e senza neve sulle montagne in estate sarà ancora più grave, e per lasciare al fiume la portata bisogna prelevare a monte il 20% in meno». Le Regioni, avvisate, hanno invece prelevato di più, perché in Lombardia, Veneto ed Emilia si fanno tre raccolti di mais per fare biomassa, e di acqua ne serve molta. Ma l’Osservatorio non ha nessun potere sugli assessori all’agricoltura regionali, e un’autorità nazionale che decida dove fermare i prelievi, o di quanto abbassare i laghi, non c’è. E tantomeno una unica cabina di regia che imponga colture più adatte al mutamento climatico.

Di fronte alla tropicalizzazione del clima occorre raccogliere l’acqua nei periodi più piovosi per renderla disponibile nei momenti di difficoltà. Oggi siamo in grado di trattenere solo il 10% dell’acqua piovana, mentre la Spagna per esempio ne stocca il 50%. La diga di Ridracoli la dice lunga: costruita fra mille ostacoli negli anni ’80, fornisce acqua ai 950.000 abitanti delle province di Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini, e a milioni di turisti della Riviera Romagnola. L’invaso raccoglie le precipitazioni che cadono nel Parco Nazionale del Monte Falterona e Campigna, e quest’anno il livello di riempimento è stato sempre entro medie di periodo, ed ha consentito alla Romagna di non aver alcun problema legato alla scarsità d’acqua.

Dal 2014 esiste una «Strategia nazionale di adattamento ai mutamenti climatici e risorsa idrica», dove sono indicati i problemi, le cause, i provvedimenti. Ma è rimasto lì. Poi sono arrivati i soldi del Pnrr: già nel 2021 stanziati 4,3 miliardi per impianti di trattamento per il recupero dell’acqua (oggi usiamo l’acqua potabile per pulire le strade), depurazione acque reflue, manutenzione della rete idrica (le perdite sono del 38% a livello nazionale, con punte al sud del 70-80%), costruzione di 20 piccoli nuovi invasi, pulizia di quelli esistenti, opere di contrasto al dissesto idrogeologico.

Il nuovo governo che verrà potrebbe modificare il piano. Intanto è piovuto, ci sono stati nubifragi, molti danni da risarcire, e l’impressione è che il peggio sia alle spalle. Purtroppo non è così: sabato 20 agosto a Pontelagoscuro, ultima stazione di misura alla foce del Delta, la portata del Po è la metà rispetto alla media del periodo, nonostante il minor prelievo agricolo, perché buona parte delle colture sono arrivate a maturazione. Ma l’interesse nell’agenda politica non c’è, e quindi l’anno prossimo staremo di nuovo a spiare il cielo, e a sperare che il pozzo non si prosciughi.”