Villa Giovannina. Alberto Tampellini

– Testo tratto dal libro Le dimore dei signori  Marefosca editore, 2004, per gentile concessione dell’autore Alberto Tampellini e dell’editore. Foto di Floriano Govoni
Percorrendo la strada che da Persiceto conduce a Ferrara, in prossimità  di Cento ci si trova
improvvisamente a fiancheggiare un lungo duplice filare di alti pioppi cipressini alla fine del quale, fiabesca e suggestiva, appare la visione di quell’austera mole architettonica chiamata Giovannina, la cui aristocratica presenza da alcuni secoli nobilita le plaghe al confine tra il Persicetano e il Centese. Eppure, per moltissimo tempo, l’origine di questo castello turrito è stata oggetto di equivoci e fraintendimenti che perdurano tuttora. E’ infatti opinione popolare assai diffusa che il palazzo fortificato prenda il nome da Giovanni II Bentivoglio, che fu signore di Bologna dal 1462 al 1506 e le cui opere di bonifica idraulica e di sviluppo edilizio in queste zone della Bassa Bolognese diedero in effetti nuovo impulso economico e
demografico a territori un tempo semipaludosi. Azzardata si dimostra però tale attribuzione, come del resto quella del progetto, per il
quale si è fatto il nome del famoso architetto Sebastiano Serlio (1475-1554/5). Si tratta di tesi sostenute probabilmente sulla scorta delle notizie riportate (senza citarne la fonte) dall’erudito centese Gaetano Atti nel sec. XIX (1). Solamente una decina di anni or sono le attente ricerche effettuate da Fausto Gozzi a seguito di precise analisi documentarie hanno potuto ricondurre alla realtà storica le remote origini di un edificio tanto famoso quanto ancora sconosciuto, attribuendone la costruzione alla famiglia senatoria bolognese degli Aldrovandi. 
  La stirpe d’Ildebrando   
Anche se gli Aldrovandi costituirono una delle famiglie più nobili e ragguardevoli di Bologna, le origini di questa casata, al pari di altre,  sembranoperdersi nella leggenda. Provenienti da Castel de’ Britti (sul crinale appenninico sopra l’Idice), ove conservarono a lungo una
serie di beni passati poi ai Fava, furono considerati discendenti di un tal Ildebrando, longobardo, da cui avrebbero preso il nome.
Le prime notizie certe risalgono invece al secolo XII, quando la famiglia, già insediatasi a Bologna, fu detta “dal Vivaro” perché residente in quella contrada. Sappiamo infatti che, a partire da quest’epoca, i suoi membri iniziarono a ricoprire importanti cariche pubbliche e ad avere
un peso nelle vicende politiche del Comune. Tra i primi ad essere menzionati dalle fonti è un Pietro Aldrovandi che figura tra i testimoni del solenne giuramento con cui gli abitanti di Oliveto (centro fortificato arroccato su di un picco nell’alta valle del Samoggia) si sottomisero a Bologna nell’anno 1175. Altri, in seguito, furono ammessi nel Collegio dei Savi e, a partire dalla metà del XIV secolo (con Giovanni e Pietro), ricoprirono più volte l’Anzianato. Agli inizi del XV secolo Nicolò  Aldrovandi, dottore in legge e membro del Consiglio dei Quattrocento, divenne gonfaloniere di giustizia, espletando importanti incarichi diplomatici per conto del governo cittadino.

Nello stesso periodo, dalla famiglia
uscirono anche lettori di diritto presso lo studio bolognese,
ambasciatori e magistrati; come quel Giovanni Francesco Aldrovandi
che, nel 1494, ospitò in casa propria per oltre un anno il
giovane Michelangelo Buonarroti, commissionandogli alcuni
lavori in città (2).

Un Leonardo Aldrovandi, giÃ
membro degli Anziani, fu inviato nel 1512 dal governo
bolognese nel castello di San Giovanni in Persiceto, in qualità di
commissario (3), mentre un Annibale Aldrovandi fu nominato
Cavaliere. 
Grandissimo rilievo in campo culturale ebbe poi  Ulisse
Aldrovandi
(1522-1605), medico, scienziato e naturalista di
grande fama, autore di numerose opere erudite in campo botanico e
zoologico e creatore del cosiddetto “Museo Aldrovandiano”,
cioè di quella raccolta ragionata di minerali, fossili, campioni
botanici, oggetti esotici e stravaganti, reperti archeologici e
naturalistici di cui fece poi dono al Comune con atto testamentario.
Agli Aldrovandi furono concessi la dignità senatoria nel 1467,
per volontà di papa Paolo II, e, in due diverse riprese, dall’imperatore Carlo V nel 1535, ottenendo
inoltre di poter inserire l’aquila imperiale nell’arme del
casato
il titolo
comitale: dapprima la contea di Guia (nel Modenese) per un
breve periodo (dal 1586 al 1593), poi quella di Viano (nel
Reggiano) a partire dal 1598.

Possedettero beni a Castel de’
Britti, San Marino di Bentivoglio, Sant’Antonio di Savena, Santa
Maria in Duno e Piumazzo,
oltre a numerose abitazioni cittadine
(in via del Vivaro e in via Galliera, ove fu iniziato nel 1725
un palazzo signorile per opera del cardinale Pompeo Aldrovandi)
e nell’immediato suburbio, ove si trova tuttora la stupenda
residenza di Camaldoli nota come Villa Aldrovandi
Mazzacorati (4).

Cavamento e terre di bonifica: i Bentivoglio, i Pepoli, gli Aldrovandi

Nel 1487, per volontà di Giovanni II Bentivoglio signore di Bologna, iniziò, nella parte
orientale del territorio persicetano, l’escavazione del canale di
bonifica detto “Cavamento Foscaglia”, destinato a
raccogliere le acque dei vari scoli e canali dei territori di
Sant’agata, Crevalcore e San Giovanni in Persiceto facendole poi
confluire nel Panaro vicino a Bondeno. Poichè fino a quel momento
tutte le fosse si disperdevano nei territori vallivi circostanti
causando insalubri ristagni ed esondazioni periodiche nelle terre
basse al confine con il Crevalcorese, risulta evidente come Giovanni
II, promuovendo questa iniziativa, avesse reso un grande servizio non
solo alle comunità rurali, ma anche alle nobili e potenti famiglie
dei conti Pepoli e dei marchesi Bevilacqua, alle quali da tempo
l’Abbazia di Nonantola aveva concesso il diritto di sfruttamento di
grandi superfici di terreno nei distretti del Secco (ove gli stessi
Bentivoglio avevano possedimenti) e della Palata, a nord-est di
Crevalcore. Benché l’opera venisse portata a compimento solamente
nel 1493, dopo sei anni di lavoro, già nel 1488 i Persicetani
riconoscenti donarono al signore di Bologna una vasta tenuta
comprendente ben otto possessioni e posta nel territorio di
“Morafosca e Villa Gotica” (a nord-est dell’attuale
frazione di San Matteo della Decima). In precedenza bene enfiteutico
vescovile, da allora in poi la tenuta, dal nome del
benefattore, si chiamò
“Zoanina” o
“Giovannina” (5).

Dai documenti di cui siamo a
conoscenza non risulta però che Giovanni II avesse iniziato la
costruzione di un qualsiasi palazzo nel suo nuovo possedimento. Un
atto del 15 dicembre 1494 recante il permesso di
edificare un mulino sui terreni della “Giovannina”
non accenna infatti ad alcun altro edificio particolarmente
significativo. E un documento notarile in data 3 dicembre 1506
(protocollo Ippolito Frati), enumerante i beni confiscati a Giovanni
II dopo il crollo delle sue fortune politiche e la sua cacciata da
Bologna, fa solo riferimento ad una casa con orto per il fattore, a
due casette per gli ortolani e ad una casa con mulino (6).

Niente quindi ci autorizza ad
attribuire al Bentivoglio la costruzione di un edificio con
caratteristiche più rilevanti di quelli citati. Nel 1513, dopo la
morte in esilio di Giovanni II, cadde il bando decretato contro la
sua famiglia; essa poté così rientrare in possesso di gran parte
dei beni perduti compresa la tenuta “Giovannina”, che andò
ad Antonio Galeazzo Bentivoglio, figlio di Giovanni II.

Si andavano intanto delineando, tra le
nobili famiglie bolognesi insediatesi nel Persicetano, anche gli
interessi dell’antico casato degli Aldrovandi. Nel gennaio del 1509
divenne infatti Podestà di San Giovanni in Persiceto Filippo Maria Aldrovandi,
al quale, dopo un anno, subentrò il padre Sebastiano (7).
Nell’ottobre 1529 fu invece il conte Giovanni Aldrovandi ad
essere mandato dal Comune di Bologna, in qualità di Commissario,
presso il Castello di San Giovanni in Persiceto
con l’ordine di
far buona guardia al borgo e alla rocca (allora minacciati dalle
turbolenze dei fuorusciti bentivoleschi), di riparare i “terragli”
e di “asserragliare” le porte (8).

Era ormai nell’aria la costituzione
di una tenuta fondiaria di ragione di questa nobile famiglia
bolognese; e infatti, con rogito del 10 maggio 1537, la ComunitÃ
Persicetana (dissanguata dai debiti) alienò, tra i vari beni
terrieri, anche 287, 5 biolche di terreno presso la “Giovannina”,
che andarono all’ex podestà (poi senatore) Filippo Maria (9).

A dimostrazione dell’influenza
esercitata dalla famiglia nelle vicende persicetane ricordiamo che,
ancora nel 1599, il conte Pompeo Aldrovandi
presenziò, in
qualità di giudice, all’estrazione novennale dei beni della
Partecipanza tenutasi il 24 marzo di quell’anno sotto il
portico della Sede Comunale (10).

Una tenuta dalle alterne fortune

Nel 1544 la “Giovannina”
passò ai Pepoli
che, undici anni dopo, la cedettero a loro
volta al conte Ercole Aldrovandi (1526-1593), figlio di
Filippo Maria scomparso nel 1541. E proprio nel rogito
notarile datato 13 dicembre 1555 si trova menzionato, per la
prima volta, un edificio chiamato la “Palazzina”

(11).

Tale denominazione induce perciò a
pensare che solo allora fosse stata costruita sulla tenuta una casa
ad uso padronale di considerevoli dimensioni e dalle linee
architettoniche finalmente degne di nota. Questa casa costituì
probabilmente la struttura originaria sulla quale fu impostata la
costruzione dell’attuale palazzo turrito. Sappiamo infatti che il
conte Ercole, nel suo testamento del 1565, manifestò la volontà che
fossero portati a compimento i lavori di una “fabbrica” da lui
stesso iniziata alla “Giovannina” (12). Il definitivo
completamento dall’edificio deve però essere avvenuto in più
momenti e attraverso svariate ristrutturazioni, se ancora nel 1644 il
conte Filippo Aldrovandi, nel suo testamento, raccomandava a
sua volta alla moglie Isabella Pepoli di portare a termine i
lavori del palazzo che egli pure aveva iniziato (13).

Risulta quindi errata la notizia,
spesso riportata (14), secondo la quale il palazzo sarebbe divenuto
proprietà della famiglia Aldrovandi nel 1617 a seguito del
matrimonio tra Filippo e Isabella Pepoli, che l’avrebbe recato in
dote. Esso infatti, come abbiamo visto, apparteneva agli Aldrovandi
già da diversi decenni.

Fu il conte Filippo, invece, che
commissionò al Guercino gli splendidi affreschi
che decorano
alcune stanze del palazzo. Possiamo farci un’idea dell’aspetto
della palazzina Aldrovandi in questo periodo osservando una bella
mappa della seconda metà del XVII secolo (1666/1677 ?), opera del
perito agrimensore Alessandro Boati (15). Qui la residenza rustica è
già di notevole pregio strutturale, con i suoi due piani di elevato,
le tre finestre per piano e i due bei torrioni con basamento a scarpa
visibili sulla fronte. Particolare del massimo interesse, la
palazzina (collocata strategicamente proprio all’incrocio tra la
via per Ferrara, la deviazione per Cento e la strada che collega il
territorio crevalcorese con Cento passando attraverso l’
“Arginone”) risulta circondata da una cortina
quadrangolare (costituita da una palizzata) e munita di quattro
torrioni agli angoli.

E’ questo infatti, come è noto, un
modulo costruttivo che, nel Bolognese, è tipico delle strutture
fortificate cinquecentesche, ma che in questo caso stupisce per la
sua apparente recenziorità.

Un avvenimento di grande importanza
per le sorti del casato e della tenuta “Giovannina” si era
intanto verificato attraverso il matrimonio del conte Ercole,
figlio di Filippo
, con Smeralda Marescotti. Da questa
unione nacque infatti Filippo Maria, che dopo la prematura scomparsa
di entrambi i genitori fu cresciuto dallo zio materno Riniero
Marescotti.
Morto questi nel 1691 senza discendenti diretti,
trasmise al nipote, assieme alla cospicua eredità familiare, anche
il proprio cognome. Il conte Filippo Maria (1658-1748) divenne
quindi capostipite del ramo Aldrovandi – Marescotti
e,
soprattutto, poté aggiungere alle vaste proprietà terriere anche la
villa bolognese di Camaldoli (oggi Villa Aldrovandi Mazzacorati,
fuori porta Santo Stefano) e la grande tenuta persicetana della
“Fontana” (in territorio decimino), entrambe già dei Marescotti
(16.)

Il possesso congiunto delle due tenute
della “Giovannina” (ricca di vigneti) e della “Fontana”
(coltivata a cereali) dovette sicuramente costituire una costante ed
abbondante fonte di redditi. Fu questo infatti il periodo di maggior
floridezza economica e di maggior lustro politico della famiglia. La
prospera situazione patrimoniale di cui venne a godere consentì
perciò a Filippo Maria di intraprendere una brillante carriera
diplomatica che lo portò, tra il 1700 e il 1731, a ricoprire per tre
volte la carica di ambasciatore del Governo di Bologna presso
la Santa Sede (
17). Con l’andar del tempo egli però, per
mantenere il suo elevatissimo tenore di vita, contrasse pesanti
debiti che alla sua morte, avvenuta nel 1748, furono ereditati
assieme ai beni di famiglia dal figlio, conte Riniero
(1694-1760).

Questi si dimostrò comunque un buon
amministratore e, attuando scrupolosamente una corretta gestione
patrimoniale, riuscì a sopperire almeno in parte alle difficoltÃ
economiche in cui era venuto inopinatamente a trovarsi. Fu inoltre un
padre premuroso e si interessò sempre personalmente dello stato
degli affari di famiglia. Di lui possiamo ricordare un curioso
episodio che nel 1719, venticinquenne, lo vide protagonista, assieme
alla giovane Anna Colonna (nel frattempo segretamente sposata) di una
romantica fuga d’amore alla “Giovannina”. Questo colpo di testa
giovanile costò a lui, alla sua novella sposa e al padre Filippo
Maria quasi un anno di esilio a Venezia (18).

Riniero morì nel 1760 a Palazzo
“Fontana”, lasciando erede dei suoi beni il figlio Gianfrancesco
(1728-1780), di indole assai diversa dal padre. Egli fu infatti
mondano, galante, assiduo frequentatore di “accademie”
artistiche e spettacoli teatrali. Si trovò però ben presto in
cattive acque a causa del cronico stato di indebitamento della
famiglia (situazione peraltro generalmente diffusa tra la nobiltÃ
dell’epoca) e delle continue ed eccessive spese connesse ai fasti
del suo rango sociale e al costoso mantenimento del fratello minore
Pietro. Ciononostante, nel 1761 egli decise anche di iniziare una
dispendiosa ristrutturazione della villa suburbana di Camaldoli. Nel
1763, in particolare, vi fece costruire il graziosissimo teatrino
ornato dalle leggiadre ed eleganti figure di cariatidi e telamoni che
sostengono le balconate; nel periodo 1770-72 commissionò poi
all’architetto Francesco Tadolini la costruzione di quella
grandiosa e solenne facciata neoclassica esastila, sormontata da
timpano e affiancata da barchesse laterali porticate, che ancor oggi
possiamo ammirare (19).

Scomparso il conte Gianfrancesco
nel 1780, il conte Carlo Filippo, suo figlio, dimostrò vasti
e diversificati interessi culturali ed artistici (poesia, musica,
belle arti, economia e politica), divenne membro e mecenate dell’
“Accademia dei Fervidi” e offrì la sua protezione al
giovane pittore Pelagio Palagi. Ma la situazione finanziaria
della famiglia non era nel frattempo certo migliorata, tanto che la
madre di Carlo Filippo, la modenese Lucrezia Fontanelli,
prese la dolorosa e drastica decisione di alienare le tenute
“Giovannina” e “Colombara storta” (entrambe nel Persicetano)
al conte Carlo Caprara, con rogito Lorenzo Gamberini del 22 dicembre
1787 (
20).

Lo stesso Carlo Filippo,
dodici anni dopo, si vide costretto a vendere anche la tenuta
“Fontana” per ricavarne denaro contante. Si esauriva così,
dopo quasi tre secoli, quello slancio verso la campagna, al tempo
stesso estetico ed imprenditoriale, che aveva caratterizzato la
nobiltà bolognese in cerca, oltre che di sicuri e abbondanti
guadagni, anche di nuove connotazioni di prestigio sociale,
concretizzatesi poi nell’ideale elitario di una elegante,
“sportiva” e salutare villeggiatura agreste, ambita e
piacevolissima alternativa alla raffinata e formale vita urbana. E
ciò perché nello scorcio del secolo XVIII, sotto la spinta di
un’ondata di riflusso, la brillante vita cittadina delle accademie,
dei teatri, delle sale da gioco e dei caffè esercitò un’attrazione
irresistibile sugli aristocratici alla moda spingendoli a dilapidare
le loro ingenti fortune nella celebrazione dei suoi fasti e dei suoi
costosi ed esteriori rituali, provocando così una generalizzata
perdita di interesse verso la corretta gestione dei patrimoni
fondiari alla base delle loro stesse ricchezze e una rapida
dissoluzione dei medesimi a tutto vantaggio dell’attiva borghesia
emergente.

Dal “restauro” del Ceri ai giorni nostri

Otto anni dopo esserne entrato in
possesso, il conte Carlo Caprara cedette la “Giovannina” al
marchese Federico Cavriani di Mantova (che vi si
trasferì, divenendo poi prefetto del Dipartimento del Reno sotto
l’occupazione francese) nel luglio del 1795 (21). Verso la metÃ
del secolo scorso il palazzo passò poi alla famiglia centese dei
Plattis, per via matrimoniale. Ricordiamo tra l’altro
che dal 1884, anno delle sue nozze col marchese Ferdinando Plattis,
fino al 1891 abitò e lavorò alla “Giovannina” la
scrittrice centese Maria Maiocchi, meglio nota con lo
pseudonimo di “Jolanda” (22).

Nel 1892 il palazzo fu acquistato,
tramite l’intermediazione della famiglia Carpi di Cento, dal
facoltoso Alessandro Calari, esponente di primo piano
della solida borghesia bolognese. Con tipico spirito imprenditoriale
egli avviò subito generali opere di risistemazione idraulica e di
riassetto fondiario della tenuta, valorizzandola e rendendone più
proficuo lo sfruttamento agricolo. Incaricò inoltre l’ingegnere
bolognese Giuseppe Ceri
(1839-1925) di effettuare una
radicale ristrutturazione dello storico edificio.

I lavori, che si protrassero dal 1897
al 1902 e conferirono al palazzo il suo aspetto attuale
(evidentemente ispirato ad un ideale e stereotipato modello
“castellano”), dopo la morte di Alessandro furono portati a
termine con grande entusiasmo dal figlio Oreste. Questi
infatti, noto sportman bolognese dai gusti raffinati e amante della
bella vita, vide sicuramente ancor meglio concretizzate le proprie
aspirazioni ad una brillante mondanità eleggendo a residenza il
vetusto immobile, nuova cornice atta a proporre l’elegante e
studiata immagine del gentiluomo di campagna amante dei cavalli e
signorilmente impegnato in nobili attività sportive e altri
piacevoli svaghi (23). In seguito allo spregiudicato intervento del
Ceri la “Giovannina” ha assunto dunque quell’aspetto turrito un
po’ fiabesco che ormai la caratterizza e la rende familiare al
nostro sguardo.

Dal 1902, anno in cui furono portati a
termine i lavori, la villa è giunta infatti fino ad oggi senza
subire interventi significativi. Con decreto del 6 maggio 1950, anzi,
essa è divenuta edificio sottoposto alla tutela della
Soprintendenza ai Beni Architettonici dell’Emilia Romagna.

Tutto il complesso, assai ben curato, si presenta attualmente in
ottime condizioni e costituisce probabilmente l’episodio storico –
artistico – architettonico più significativo del territorio
persicetano. Non resta dunque che auspicarne, per il futuro, una più
frequente apertura ai visitatori.

 

Il “Palazzo cinto di muraglie”

La bella costruzione, situata nei
pressi dell’abitato di Cento (in provincia di Ferrara) ma ancora
all’interno dei confini amministrativi del Comune di San Giovanni
in Persiceto,
ha pianta quadrilatera ed è munita di quattro poderosi
torrioni angolari, attualmente sormontati da un coronamento di merli
ghibellini poggiante su finte caditoie, che la sopravanzano
nettamente in altezza e le conferiscono un aspetto austero e
minaccioso.

L’articolazione degli spazi è su
due piani, attraversati, secondo l’uso bolognese, da una doppia
loggia passante sovrapposta ai lati della quale si aprono i vari
ambienti. La facciata, infine, è movimentata da un’abbozzo di
torre passante in corrispondenza del portale d’ingresso. Se però
confrontiamo l’aspetto attuale con quello che ci mostrano alcune
vecchie fotografie della fine del secolo scorso noteremo subito un
notevole cambiamento. A quell’epoca, infatti, le torri angolari
apparivano più basse di quasi 5 metri, sopravanzanti quindi di poco
il corpo centrale dell’edificio. Ciascuna di esse, inoltre, era
coperta da un tetto poggiante sul coronamento di merli ghibellini,
anche allora presenti ma con le feritoie murate. Le finte caditoie
erano poi appena accennate, e sul torrione di sinistra, tra le due
finestre superiori, era posto un orologio (24).

Queste modifiche risalgono, come
abbiamo visto, al restauro condotto dall’ing. Ceri tra il 1897 e il
1902, e sembrano risentire fortemente di quel sogno romantico
neomedievaleggiante, popolato di cavalieri, dame e castelli turriti,
che caratterizzava la sensibilità estetica di quel periodo; si può
notare infine come, nel progetto della sommità merlata delle torri
angolari, il Ceri si sia chiaramente ispirato alla parte terminale di
quelle della Rocca di Cento, distante poco più di un chilometro
(25).

Nonostante questi rimaneggiamenti, il
palazzo mostra comunque ancora la tipica struttura cinquecentesca
delle residenze fortificate di campagna come le “Quattro Torri”
a Castagnolo o il “Conte” a Bagno di Piano. E
della sua
funzione difensiva rimane ancora chiara testimonianza, per il secolo
XVII, in un inventario dei beni Aldrovandi datato 30 gennaio 1673:

“(…) Alla Giovannina, un
Palazzo cinto di muraglie con Ponte levatore, e fosse intorno, con
quattro Cantoni a foggia di Baluardi con cortile intorno, una stalla
grande con 26 poste da Cavallo, partimento da fattore, e servitori
loro con diverse commodità, e cantine da Botte, e tinazzi con suo
granari, e stanze da fare acquavita. Mobili nel Palazzo. Nella loggia
da basso 6 cavalletti con 6 spingarde corte, et altre 6 longhe con
accialini, due rastelli da arme con 18 moschetti sopra, et un
accialino da duellare, buffetti di noce con spiedi torliti 13 banzole
di noce con poggia (…)” (26).

Poderoso
e ben munito doveva quindi risultare l’intero complesso, con la sua
cinta di mura rinforzata da quattro baluardi e circondata da un
fossato che poteva essere oltrepassato solo tramite un ponte
levatoio. Nutrita appare inoltre, per l’epoca, la dotazione di armi
da fuoco, a ulteriore dimostrazione di una preventivata possibile
funzione anche militare dell’edificio, situato per di più proprio
nella zona confinaria tra lo Stato della Chiesa (in cui era allora
compreso il territorio bolognese) e il Ducato Estense. Ancora in un
documento del 22 dicembre 1710 (rogito Salvatore Paparozzi), il
castello viene descritto come un
“Palazzo di campagna ad
uso di fortezza circondato da muri con sue fosse e ponte levatoio e
quattro baluardi
(…)
” (27).

Il medesimo inventario del 1673 ci
informa anche sulle caratteristiche dell’arredamento interno, che
appare sobrio e funzionale ad un ambiente rustico: “(…) Nella
prima camera à man destra di d(ett)a loggia. Una lettiera di noce
senza colonne con suo Paiazzo, tamarazzo, e capezzale, un buffetto di
noce, tre careghe di corame vecchio e 4 banzole di noce. Nel Camerino
della torre contigua a d(ett)a stanza una lettiera alla Romana con
colonne basse con paiazzo, tamarazzo, e Capezale, un armario di
fioppa con 4 palle d’ottone vuoto, un scrannino di corame vecchio
una scranna bassa di noce legata di Paviera. Nella Salla da basso,
una Credenza di noce con sue cassette, e mascarini di bronzo. Un
tapedo di corame sopra d(ett)a credenza con arma Aldrovandi
Marescotti. 6 careghe di corame alla veneziana con balle d’ottone
tonde, due cassoni di fioppa con suoi tapedi di corame con la
sud.(ett)a Arma, una portiera di corame due quadri di pittura senza
cornice, uno dipintovi il castello di Crespellano, e l’altro una
Cacciatrice col falcone.
(…)” (28).

Attualmente il palazzo è in parte
circondato da un muro di cinta alzato e munito, ad opera del Ceri,
di
finti bastioni alle estremità del lato sud. Lungo il
lato opposto è inoltre affiancato dalla serra, dalle scuderie e da
una massiccia torre merlata (la quinta dell’intero complesso), con
orologio sul lato est, sormontata da un torricino. Queste costruzioni
(anch’esse dovute agli interventi del Ceri) formano un insieme
compatto posto ad una certa distanza dall’edificio principale e
ritagliano all’interno del muro di cinta lo spazio di un secondo
cortile. Il Ceri costruì anche un grande pozzo, sormontato da un
arco in mattoni a vista, sul lato nord del cortile, in prossimitÃ
della torre anteriore destra. Immediatamente dietro la villa si trova
poi l’ampio parco. L’inaugurazione ufficiale dello storico
edificio dopo la grande ristrutturazione si svolse il 6 settembre
1902 a cura dell’orgoglioso proprietario, Oreste Calari, che per
l’occasione vi aveva fatto apporre esternamente gli stemmi dei
Bentivoglio e degli Aldrovandi (torre anteriore sini-stra), nonchè
quello dei Calari (al centro della facciata). Sulla torre anteriore
destra si trova invece una lapide commemorativa che ricorda il
soggiorno della scrittrice “Jolanda”, al secolo Maria
Majocchi Plattis
(29).

Gli affreschi del Guercino

Agli Aldrovandi va anche attribuito il
merito di aver commissionato gli affreschi che decorano le sale
interne della “Giovannina” al famoso pittore centese Giovanni
Francesco Barbieri, detto il Guercino (1591-1666). L’intervento
dell’artista, in ottimi rapporti di amicizia con il conte Filippo
(estensore del testamento in data 1644), pare essersi concretizzato
negli anni compresi tra il 1617 e il 1632.

Attualmente risulta però impossibile
stabilire sempre con precisione in quale misura la mano del maestro
sia intervenuta direttamente sulle mirabili pitture, anche a causa di
inopportuni ritocchi ottocenteschi (30).

L’Oretti, accennando alla
“Giovannina”, la descrive così: “Villa di Casa Aldrovandi
verso la Terra di Cento, vi sono vari dipinti del famoso Gio. Fran.co
Barbieri d.to il Guercino tra gli altri una Venere dipinta a fresco
che è lavoro ammirabile
” (31).

Esaminiamo ora gli affreschi nel
dettaglio e capiremo meglio gli ideali di vita e cultura del nobile
committente.

Nella prima stanza del piano nobile
(lato nord a partire dal fondo) la fascia superiore delle pareti è
decorata da quattordici eleganti figure di cavalli, ritratti su
ariosi sfondi paesaggistici in diverse pose di incredibile vivezza e
naturalezza e racchiusi entro cartigli simulanti elementi
architettonici. L’ispirazione per questa serie di immagini sembra
vada ricercata nelle analoghe incisioni a stampa di Antonio Tempesti
(1555–1630) (32). Le campiture del soffitto sono invece decorate da
motivi astratti inseriti in cornici ondulate su fondo verde o
arancio.

Sul camino della seconda stanza (lato
nord) fu dipinta dal Guercino nel 1632 quella “Venere e
Amore
” decantata dall’Oretti nel 1770. Come risulta da un
inventario databile al 1794-95, sappiamo che l’opera, purtroppo,
era già stata asportata per essere collocata nella prestigiosa
galleria d’arte di “Palazzo Aldrovandi” (in via Galliera) a
Bologna. Il dipinto autentico si trova ora conservato a Roma presso
l’“Accademia di San Luca”, alla quale fu donato dalla famiglia
Aldrovandi nel 1823, mentre quello che oggi possiamo ammirare nella
posizione originale è una copia, eseguita probabilmente nella prima
metà del XIX secolo dal riminese Giuseppe Rondelli (33).

La fascia superiore delle pareti è
decorata da tredici gradevolissime scene che, racchiuse entro
bizzarri cartigli a volute sormontati da volti grotteschi,
raffigurano con fresca e ingenua immediatezza la vita e le gesta di
Clorinda, l’eroina della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. I
vari episodi sono intervallati da eleganti busti a monocromo; in
corrispondenza delle travi del soffitto si trovano invece raffigurati
puttini in atto di telamoni. Le campiture del soffitto presentano
volute, cornici ondulate, ovali e fregi, su fondo verde, rosso e blu,
inframmezzati da elementi vegetali e uccelli.

Nella terza stanza (lato nord), la
fascia superiore delle pareti è ornata da graziosissime figurine di
puttini che ridono, giocano, scherzano e suonano dando luogo a
scenette di una grazia e di un’eleganza squisite. La piacevolezza
di tutta la rappresentazione è poi ulteriormente accresciuta dal
tromp-l’oeil naturalistico ricavato in alcune campiture del
soffitto mediante un’ariosa decorazione pittorica costituita da
grovigli di flessuosi rami che poggiano su bastoni a mo’ di
pergolato e fra i quali troviamo vari uccelli; il tutto su di uno
sfondo azzurro simulante il cielo aperto. Si crea così l’illusione
di una complessa architettura aerea e quasi immateriale che fa da
teatro alle giocose attività degli spensierati puttini.

Nella quarta stanza (lato sud), il
fascione superiore ospita, inserite entro riquadri delimitati
da cornici, dodici vedute paesaggistiche ove la bellezza
dell’ambiente naturale raffigurato è sottolineata dallo studiato
inserimento dell’opera architettonica dell’uomo. Emerge qui
l’ideale di un’armonica unione tra arte e natura in cui
l’esaltazione della centralità dell’uomo nel mondo trova
concreta espressione nel privilegio di “perfezionare” e
“nobilitare” ulteriormente la Creazione stessa, quasi a
completamento della pur ineffabile opera del “Massimo Fattore”.

Particolarmente significativo e
interessante, a questo proposito, risulta il riquadro in cui è
raffigurato un elegante palazzo dalle linee estremamente geometriche,
con torretta centrale e larga scalinata d’accesso, sulle sfondo di
un regolare allineamento di alberi inframmezzati da basse siepi e
aiuole, e di un lungo padiglione sormontato da cupola, ottenuto con
arte sapiente mediante l’impiego a fini architettonici della
vegetazione rampicante. E proprio quest’arte sapiente, la stessa
che ha geometricamente ordinato anche il simbolico scorcio di
giardino alberato che si intravede sulla destra, accordando il tutto
alla classica ed essenziale linearità del palazzo, è il segno
tangibile di una più alta e perfetta razionalità celeste che ci
trascende e che, tramite la mediazione dell’uomo, di sé tutto
infonde.

Bellissimo poi appare anche il
riquadro raffigurante un insolito e fiabesco castello turrito,
parzialmente circondato dall’acqua e le cui linee, più fantasiose
e vagamente goticheggianti, sul modello del castelli della Loira, ben
si accordano in queste caso col carattere spontaneo e quasi selvaggio
della vegetazione in cui si trova immerso, mitigato soltanto dallo
studiato arco vegetale in primo piano sulla destra. Qui la mirabile
interazione fra arte e natura è già presentata con sensibilitÃ
diversa e più libera rispetto a quella di tradizione rinascimentale
che caratterizza la raffigurazione del pannello precedente.

Le campiture del soffitto di questo
ambiente hanno decorazioni costituite da astratti motivi geometrici a
cornice su diverse tinte di fondo.

Nella quinta stanza (lato nord), la
fascia superiore delle pareti è decorata da quattordici riquadri
raffiguranti altrettanti episodi dell’Orlando Furioso di
Ludovico Ariosto
, incorniciati e separati tra loro da
finti elementi architettonici. Le squisite e piacevolissime pitture
rendono la storia epica del grandioso poema in modo immediato e
suggestivo trasferendo nelle immagini l’originalissima ispirazione
letteraria della sbrigliata fantasia ariostesca. Particolarmente
bella, e improntata ad una smaliziata e compiaciuta ironia del topos
letterario, risulta la scena in cui l’eroico Ruggero, a
cavallo dell’Ippogrifo, salva la bella Angelica
minacciata da un terribile mostro marino.

E una certa divertita ironia pervade
anche la rappresentazione dell’impeto passionale del focoso Medoro,
che, sulla riva di un fiume, stringe con foga una scomposta e
traballante Angelica.

Nelle campiture del soffitto troviamo
estrosi motivi geometrici a cornice inframmezzati da elementi
floreali, festoni e volute su fondo policromo. Stilizzati fregi
intrecciati ornano anche le travi portanti del soffitto.

Da questa sala si accede ad una
piccola stanza da bagno decorata da sei scene di carattere fantastico
o mitologico, fra cui la delicata raffigurazione di Diana al bagno
sorpresa da Atteone.

Nella sesta stanza (lato sud), la
fascia superiore delle pareti presenta sedici riquadri ispirati al
Pastor Fido di Giovanni Battista Guarini, incorniciati
da finti elementi architettonici e inframmezzati da festoni. Sopra il
camino è dipinta una bella raffigurazione allegorica dell’Abbondanza
probabilmente opera di Lorenzo Gennari (1595-1665/72),
valido collaboratore del Guercino.

Le campiture del soffitto sono
abbellite da cornici, volute ed elementi floreali su fondo policromo.

La presenza alla “Giovannina” di
questi cicli pittorici ispirati a poemi di argomento epico o bucolico
denota da parte dell’aristocratico committente, in accordo con le
tendenze dell’epoca, una particolare attitudine mentale che, per
motivi di prestigio e in grazia di una ormai consolidata sensibilità,
non può prescindere da riferimenti letterari ad un passato irreale e
idealizzato fatto di nobili dame, valorosi cavalieri e agresti amori
e assolutamente e convenzionalmente fissato nella sua mitica essenza
di perduta Età dell’Oro. E proprio dai luoghi di signorile
villeggiatura invitanti a serene meditazioni, di cui la “Giovannina”
a quei tempi doveva essere uno splendido esempio, un tale compiaciuto
e aristocratico atteggiamento intellettuale poteva massimamente
trarre il suo nutrimento spirituale.

Di più ci avvicinano invece a quella
che doveva essere la concezione corrente delle piacevolezze della
vita quotidiana in villa le già citate raffigurazioni di nobili
architetture in splendidi contesti paesaggistici, di bellissimi
esemplari di destrieri e di putti impegnati in attività ludiche,
come la musica, il canto e i giochi, che certamente allietavano le
gioiose comitive di illustri ospiti in un’incantevole cornice di
giardini, viridari e ariosi pergolati.

Le pitture liberty

L’altra grande – ed inaspettata –
sorpresa artistica che riserva la “Giovannina” ai privilegiati
visitatori è costituita dalla pittura in stile liberty che decorano
le sale del pianterreno e i quattro ambienti ricavati nei torrioni
angolari all’altezza del piano nobile. Queste nuove eleganti
decorazioni pittoriche furono volute da Oreste Calari
in occasione della ristrutturazione dell’edificio.

Da notizie dell’epoca sappiamo che
lavorarono a questi dipinti Aristide Zanasi, che curò
le figure della “Sala da Pranzo”, e Alessandro
Scorzoni
(1858-1933), tra i maggiori rappresentanti del
naturalismo emiliano di fine Ottocento, al quale si devono invece le
deliziose figurette femminili (34). Quest’ultimo non era nuovo
all’esecuzione di lavori artistici in grandi dimore nobiliari;
eseguì infatti anche arazzi per il Palazzo Corni di Modena,
affreschi per il castello Manzoni, 18 lunette nel Palazzo
Malvezzi-Campeggi con motivi di frutta, affreschi in stile
quattrocentesco nella Cappella del Collegio di Spagna e molte altre
opere minori (35).

Tre dei soffitti all’interno dei
torrioni sono ornati da pitture raffiguranti complessi intrecci di
cornici e di squisiti motivi floreali, geometrici e astratti
evidenziati da gradevoli contrasti cromatici. Il soffitto del quarto
ambiente è splendidamente abbellito da una sfarzosa decorazione
costituita da ricche dorature a motivi vegetali simmetricamente
disposte tra loro, da fregi compositi e figurette a mò di grottesche
e da tondi contenenti piccole vedute paesistiche. Il tutto su di uno
sfondo solenne di un elegante blu notte inframmezzato da bordature di
un azzurro intenso, sulle quali risaltano magnificamente le raffinate
e preziose dorature. Nella fascia superiore delle pareti, su fondo
blu chiaro, spiccano poi elegantissime figure di bianchi cigni dal
collo flessuoso e di fantastici cavalli alati di un colore lievemente
rosato e con la parte po-steriore del corpo serpentiforme. L’effetto
sul visitatore ignaro è mozzafiato.

Al piano terreno troviamo la stanza di
“Amore con i motti”, sul soffitto della quale,
entro cornici oblunghe e bombate, sono contenute deliziose e briose
raffigurazioni di delicati puttini, che rappresentano il pargoletto
Amore impegnato con la sua piccola corte in attività giocose e
allusive alle sue qualità spirituali.

Segue la sala delle “Fanciulle”,
ove, entro cornici floreali, si possono ammirare graziosissime figure
di leggiadre fanciulle (opera dello Scorzoni) sullo sfondo di
ambienti paesistici appena accennati.

La sala con “Vedute
fantastiche
” presenta un soffitto azzurro, istoriato da
decorazioni a volute color sabbia, agli angoli del quale, entro
ondulate cornici rosse con i bordi dorati, si trovano appunto dipinti
suggestivi paesaggi fantastici dai colori tenui e delicati.

Il soffitto della Sala con “Putti
e festoni di frutta”
(sala da pranzo) è decorato nella
parte centrale da un grande riquadro monocromo movimentato da rosoni,
volute e motivi floreali disposti geometricamente. Ai suoi lati si
dispongono, inframmezzati da finti elementi architettonici e inseriti
in cartigli a volute, altri riquadri più piccoli con bordatura
dorata e contenenti raffigurazioni di puttini, seduti o distesi su
prati, frutta e altre cibarie.

La sala delle “Arti”
presenta un soffitto color sabbia ornato da motivi vegetali, vedute e
finti elementi architettonici; agli angoli, quattro riquadri
monocromi irregolari raffigurano altrettante Muse accompagnate da
attributi allusivi al loro specifico campo d’azione.

Va infine menzionata una minuscola
stanza da bagno, sempre al piano terreno, il cui soffitto è decorato
da semplici motivi floreali e le cui pareti sono abbellite da
immagini di cigni sull’acqua e uccelli in volo sullo sfondo di
grandi onde increspate rese in modo efficacemente stilizzato.

Concludiamo con un cenno alle due
logge passanti del palazzo, anch’esse ridecorate all’epoca della
ristrutturazione del Ceri.

Le pareti della loggia al piano nobile
sono impreziosite da pitture dello Zanasi che, in ossequio al
distinto proprietario del palazzo, rappresentano le attività che
scandiscono la giornata del gentiluomo (36.) Il soffitto della
loggia, color sabbia, è austeramente ornato da finti elementi
architettonici. Più ricca è invece la decorazione del soffitto
nella loggia al pianterreno. Vi campeggiano infatti in gran numero
policromi emblemi araldici inseriti in cartigli a volute e
simmetricamente disposti ai lati di riquadri monocromi istoriati.

Le lunette nella fascia superiore
delle pareti contengono ritratti di uomini illustri. Sembra che in
precedenza la loggia fosse ornata da un ciclo di pitture del centese
Alessandro Candi (1780-1866) ispirate al noto poema eroicomico
La secchia rapita, di Alessandro Tassoni. Si ricorda inoltre,
all’interno del palazzo, la presenza di un altro ciclo di affreschi
ispirati all’Eneide di Virgilio ed eseguiti da Giuseppe
Rondelli
nella prima metà dell’Ottocento (37). Le due logge
sono collegate da una scala a due rampe lungo la volta della quale si
snoda una sequenza di riquadri pittorici monocromi celebranti la
vita e i fasti di Giovanni II Bentivoglio
(38).

L’oratorio di S. Donnino

Immediatamente alla sinistra del
palazzo, all’incrocio tra via Mulinazzo e la strada per
Cento, si trova il grazioso oratorio di S. Donnino, del quale non
siamo attualmente in grado di precisare l’epoca di costruzione.
Sappiamo soltanto che il conte Ercole Aldrovandi, col suo testamento
del 1565, aveva disposto che sulla tenuta fosse edificata una
chiesetta dedicata alla Santissima Trinità. Ma di questo non abbiamo
altre notizie, mentre risulta invece tradizionale per l’oratorio
della “Giovannina” la dedicazione a S. Donnino (39).

Nel 1600 l’oratorio doveva essere
già da tempo consacrato al suo attuale titolare e officiato con una
certa regolarità. Nella visita pastorale effettuata il 17 ottobre di
quello stesso anno, infatti, il cardinale Alfonso Paleotti, terminato
il sopralluogo alla chiesa parrocchiale di S. Matteo della Decima,
visitò “l’oratorio di S. Donino degli Aldrovandi”. Dalla
relazione della visita apprendiamo che, in quel tempo, vi si
celebrava la Messa nei giorni festivi per opera di “maestro
Bonifacio dell’Ordine degli Eremitani di S. Agostino”, il quale
tra l’altro riceveva indebitamente parte delle decime dovute al
rettore della chiesa di S. Matteo.

L’oratorio, regolarmente dotato di
altare e confessionale, aveva “delle pitture di-pinte nella parete”
dell’altare stesso, e tra gli arredi sacri (conservati entro una
cassetta di legno) si annoveravano “un calice, un’unica pianeta
di colore celeste, un messale, un’alba (= veste bianca) e altre
cose per la celebrazione della Messa (…)”. In quell’occasione
il cardinale “Ordinò infine che le pareti dell’oratorio fossero
imbiancate all’interno e dato il rosso di fuori” (40.)

Il più antico sacello di cui
conosciamo le forme architettoniche dovrebbe risalire invece alla
metà del XVIII secolo, secondo un disegno progettuale fatto redigere
dal conte Filippo. Si tratta del “(…) disegno della faccia e
pianta della Chiesa di S.Donino da farsi di nuovo da Sua Eccellenza
il sig.r Conte Filippo e Sennatore Aldrovandi nella di lui villa
detta la Giovannina
”, purtroppo senza data né firma (41.)

Secondo tale progetto la pianta era a
croce latina, con campata centrale (chiesa), due coretti laterali ai
fianchi dell’altare e un piccolo ambiente adibito a sagristia. La
fronte era dotata di un porticato su quattro pilastri reggenti una
volta ad arco e sul quale si impostava il timpano. Sopra l’ampio
portale, ai lati del quale erano due basse finestrelle con grata,
campeggiava lo scudo con lo stemma di famiglia.

Oggi l’oratorio risulta a pianta
rettangolare, con abside semicircolare. La semplice facciata è
sormontata da un timpano e riparata da un piccolo loggiato circondato
da una cancellata in ferro. Sul portale si trova l’iscrizione
latina S. DOMNINO DICATVM. Due lapidi sono poste invece ai lati di
esso, la prima delle quali (a sinistra), recante la data 1937,
ricorda i restauri effettuati a più riprese sul tempietto da
Alessandro Calari e dal figlio Oreste; la seconda commemora invece i
coltivatori delle tenute “Giovannina” e “Morando” caduti per
la Patria nella guerra 1915-18.

Due finestre, una sul lato destro e
una sul lato sinistro, e quattro occhielli nell’abside danno luce
all’interno del piccolo edificio. Le pareti laterali e l’abside
sono scandite da arcatelle cieche (cinque per ogni parete e quattro
più piccole per l’abside). Il tetto è a due spioventi.

Un piccolo slanciato campanile
cuspidato, con cella campanaria dotata di quattro aperture, sorge
direttamente dallo spiovente sinistro poggiando sull’angolo sud-est
del tempietto.

L’aspetto attuale di questo oratorio
è dovuto anch’esso agli interventi effettuati dal Ceri nel corso
dei “restauri” di inizio secolo (42). Una vecchia foto scattata
prima della ristrutturazione ci mostra infatti la più rustica
chiesetta di allora, dissimile in vari particolari da quella che oggi
possiamo vedere. Le differenze più notevoli sono costituite dalla
mancanza del portichetto (previsto comunque nel vecchio progetto
seicentesco) e dell’armonioso campanile, al posto del quale vi era
un semplice campaniletto a vela (43).

 

Il Palazzone

L’imponente complesso della
“Giovannina” trova un ideale pendant nel curioso edificio
neomedievale che sorge a San Matteo della Decima nel punto in cui
dalla strada statale Ferrarese si distacca via San Cristoforo. La
parte principale dell’edificio è costituita da uno squadrato corpo
di fabbrica a pianta rettangolare e articolato su tre piani. La
successione regolare delle bifore all’altezza del primo piano e un
coronamento di beccatelli alla sommità conferiscono poi all’insolita
costruzione quell’indefinito e convenzionale aspetto medievale che,
alla vista di chi percorre la statale verso Cento, le assegna la
funzione di prologo architettonico nei confronti di quel poema epico
– cavalleresco di pietra chiamato “La Giovannina”
. Addossato
alla struttura appena descritta si trova poi un altro corpo di
fabbrica, sempre a pianta rettangolare ma più basso, privo di
elementi architettonici di spicco. Dietro ad esso infine, un po’
discosto, vi è un originale fienile costituito da due torrette
appaiate.

L’intero complesso testé descritto
fu costruito nel 1910, sempre su progetto dell’ing. Giuseppe Ceri,

all’estremo limite meridionale della tenuta di proprietà del
signor Oreste Calari (il cui emblema policromo spicca ancora oggi
sulla facciata) per ospitare due laboratori artigianali: uno da
fabbro e uno da falegname. Notiamo quindi ancora una volta l’evidente
volontà, in accordo alle concezioni estetiche dell’epoca, di
rivestire di un fantasioso alone pseudomedievale anche le attivitÃ
più concrete della vita, al fine di poter nobilitare ed inserire in
un ideale romantico ed elitario di ritorno ad un fascinoso quanto
improbabile “buon tempo antico” anche momenti dell’esistenza
che, come la quotidiana ed ingrata fatica per il lavoro, sembrano
difficilmente armonizzabili con i vagheggiamenti di un ricco
committente borghese che amava condurre una brillante vita di societÃ
e dare di sé l’immagine dell’elegante e sportivo uomo di
campagna. Tutte le strutture architettoniche si presentano ora in
ottimo stato dopo il restauro effettuato agli inizi degli anni ’80
del secolo scorso e la loro inaspettata apparizione continua ad
incuriosire il viaggiatore meno distratto grazie all’aspetto
evocatore di un passato che, come si è detto, trova a poca distanza
la sua più alta celebrazione nella superba “Giovannina”
rivisitata dal Ceri che noi oggi conosciamo (44).

 

La polemica fra il Ceri ed il Rubbiani

Negli anni in cui l’ingegner
Giuseppe Ceri pose mano alla ristrutturazione della “Giovannina”,
lo scenario artistico-culturale bolognese era ancora dominato da
Alfonso Rubbiani, notevole figura di architetto e teorico del
restauro che, grazie alla sua forte personalità e all’originalitÃ
delle sue concezioni e dei suoi interventi, dal 1880 al 1910 riuscì
a radunare attorno a sé una nutrita cerchia di validi artisti e
artigiani che condividevano la sua passione per il revival neogotico
e neorinascimentale.

Ciò che oggi rende perplessi noi
contemporanei, ormai convinti della necessità di un estremo rigore
filologico nei restauri, quando ci soffermiamo a considerare l’opera
del Rubbiani in questo campo, nel periodo 1880 – 1913 esplicatasi
su tutti i principali edifici monumentali di Bologna e su alcuni del
territorio (chiesa di San Francesco, palazzi del Comune, dei Notai,
del Podestà, della Mercanzia, di Re Enzo e castelli di Bentivoglio e
di San Martino in Soverzano), è la disinvolta libertà con cui egli
agiva. Praticamente, infatti, i suoi interventi si concludevano con
una parziale riprogettazione dell’edificio ottenuta mediante una
ricostruzione ampiamente soggettiva di parti mancanti o, addirittura,
l’aggiunta di elementi inizialmente non presenti nella struttura
architettonica originaria. Il tutto sulla base di una personalissima
e generica reinterpretazione stilistica derivata da una
rielaborazione ideale dei temi e delle forme dell’arte medievale e
rinascimentale.

Questo spregiudicato modo di agire del
Rubbiani, bollato dai moderni critici con la non infondata accusa di
aver prodotto dei falsi storici, fu già polemicamente censurato
proprio dal Ceri, progettista attivissimo e astioso protagonista
delle dispute artistico – culturali cittadine dal 1870 fino quasi
agli anni ’20 del secolo scorso. Soprattutto dalle pagine de La
striglia, un periodico satirico da lui fondato, il Ceri riversò le
sue invettive e la sua caustica ironia contro i fantasiosi restauri e
l’ispirazione neomedievale del Rubbiani e dei suoi collaboratori
(la “setta rubbianica”), arrivando perfino a coniare
l’espressione “Rubbianesimo torrificante” e a comporre un
poemucolo intitolato Merlerie rubbianiche per stigmatizzare
particolarmente la tendenza di quest’ultimo ad un superfluo ed
arbitrario inserimento di po-sticci elementi genericamente medievali
e fin troppo scontati come torri e merlature; salvo poi indulgere
anch’egli, in modo incomprensibile e contraddittorio, a
manipolazioni architettoniche di questo tipo con l’ingiustificato
innalzamento delle torri angolari della “Giovannina” e il
fantasioso aspetto neomedievale del “Palazzone” di Decima e non
facendosi inoltre scrupolo di reclamare a gran voce la demolizione
dei mozziconi autenticamente medievali delle torri bolognesi Artemisi
e Riccadonna, da lui evidentemente considerati deturpanti.

Ricordiamo infine che, nella pianura
occidentale bolognese, su progetto dell’ing. Ceri furono costruiti
anche i cimiteri di Crevalcore e di Sant’Agata Bolognese e il
palazzo comunale di Crevalcore.

Note

1) BESEGHI 19643, p. 392; CUPPINI – MATTEUCCI 1969, p. 342; ATTI 1861.

2) ALDROVANDI 1929.

3) FORNI 1921, p. 284.

4) DOLFI 1670, pp.40-44; GUIDICINI 1869, pp. 177-81; 1872, pp. 238-40; CORATO 1994, p. 53.

5) FORNI 1921, pp. 268-70; GOZZI 1982, pp. 3-4; TOFFANETTI 1989, pp. 96-98.

6) GOZZI 1983, p. 3.

7) FORNI 1921, p. 279.

8) FORNI 1921, pp. 314-315.

9) FORNI 1921, p. 319.

10) POLUZZI 1986, p. 33

11) GOZZI 1982, p. 4; 1983, p. 3.

12) GOZZI 1982, p. 4; 1983, p. 3.

13) GOZZI 1982 , p. 5; 1983 p. 3.

14) GUIDICINI 1869, p. 179; BESEGHI 1957, p.392; CUPPINI – MATTEUCCI 1969, p.342.

15) BOATI, vol. 9, p. 26.

16) CALORE 1994, p. 5.

17) CALORE 1994, pp. 5-6.

18) CALORE 1994, pp. 6-8.

19) CALORE 1994, pp. 8-12; FRABETTI 1994, p. 40; FRABETTI-LENZI 1994, pp. 34-46.

20) GOZZI 1982, p. 5.

21) GOZZI 1982, p. 5.

22) CUPPINI-MATTEUCCI 1969, p. 342; GOZZI 1983, pp. 4-8.

23) CUPPINI – MATTEUCCI 1969, p. 342; GOZZI 1983, pp. 5-6; NICOLI 1983, p.134.

24) RENZI-GANDINI 1981, pp. 29-31.

25) NICOLI 1983, p. 134.

26) ASB, Fondo Aldrovandi, Libri di conti e carte di amministrazione, b.555.

27) GOZZI 1982, p. 5.

28) ASB, Fondo Aldrovandi, Libri di conti e carte di amministrazione, b.555.

29) GOZZI 1983, pp. 5-6.

30) CUPPINI-MATTEUCCI 1969, pp. 114, 342-43; GOZZI 1983, pp. 3-8.

31) ORETTI 1770, p. 8.

32) CUPPINI-MATTEUCCI 1969, pp. 114, 227.

33) GOZZI 1983; p. 5; VECCHI 1994, p. 99.

34) CHERUBONI 1902; Liberty in Emilia 1988, schede 24 -24a.

35) Dizionario 1990, p. 462.

36) CHERUBONI 1902, p. 13.

37) ORSINI 1923, p. 14 e nota 2 p.
47; BERTARELLI 19353, p. 151.

38) CHERUBONI 1902, p. 13.

39) GOZZI 1982, pp. 4-5.

40) GOVONI 1994, p. 63.

41) ASB, Fondo Aldrovandi, Carteggio, atti vari, b.361: atti diversi.

42) GOZZI 1983, p. 6.

43) RENZI-GANDINI 1981, foto di p. 31.

44) NICOLI 1983, pp. 131 – 141.

Bibliografia

L. ALDROVANDI, Aldrovandi Ulisse, in “Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti”, vol.II, Roma 1929.

Archivio di Stato di Bologna, Fondo Aldrovandi, serie: Carteggio. Atti Vari. Miscellanea storico-scientifica, letteraria e d’arte, b.361: Atti Diversi (Un disegno della facciata e pianta della Chiesa di S.Donino da farsi di nuovo da Sua eccellenza il Sig.r Conte Filippo e Sennatore Aldrovandi nella di lui villa detta la Giovannina)
.
Archivio di Stato di Bologna, Fondo Aldrovandi, serie: Libri di conti e carte di amministrazione, mazzo 555: un libro (30 genaro 1673. Inventario tutellare, e’Legale de’ Beni Stabili, Mobili, Semoventi, Massarizie, Suppellettili, Gioie, Argenti, Robbe, ragioni, azioni, crediti, e debiti dell’eredità del fu’ S.Co: e Senat. Ercole M. Aldrovandi (…)

G. ATTI, Intorno alla vita e alle opere di Gianfrancesco Barbieri detto il Guercino da Cento, Roma 1861.

L.V. BERTARELLI, Guida d’Italiadel Touring Club Italiano. Emilia e Romagna, Milano 1953.

U. BESEGHI, Castelli e ville bolognesi, Bologna 1957- 1964, pp. 391-396.

A. BOATI, Tomo Settimo in libro uno delle piante e relazioni di Alessandro Boati (1663-1688) (Archivio di Stato di Bologna, Periti Agrimensori: “A. Boati”, vol. 9).

M. CALORE, I padroni della villa. Cronache di una famiglia, in: I padroni della villa. La famiglia Aldrovandi Marescotti nel Settecento, Catalogo della mostra a cura di M.Calore, 15-31 ott. 1994, Bologna-Villa Aldrovandi Mazzacorati, Bologna 1994, pp. 5-24. Carta generale dei Beni Culturali e
Naturali della Provincia di Bologna
, Bologna 1977, pp. 16, 19.

CHERUBONI (A.VANDINI), Inaugurazione del restaurato Castello della Giovannina, Bologna 1902.

T. COSTA – E. STAGNI, Canton de’ Fiori 1892 – 1992. Recupero di immagine e storia nel centro di Bologna, Bologna 1992.

G. CUPPINI – A.M. MATTEUCCI, Ville del Bolognese, Bologna 1969, pp. 114-15, 224-27, 342-43.

Dizionario dei Bolognesi, 2 vol., Bologna 1989-90.

P.S. DOLFI, Cronologia delle famiglie nobili di Bologna, Bologna 1670.

G. FORNI, Persiceto e San Giovanni in Persiceto (dalle origini a tutto il secolo XIX). Storia di un comune rurale, Rocca San Casciano 1921.

A. FRABETTI, La villa che non c’era: riflessioni su un progetto irrealizzato, in: I padroni della villa, cit., pp. 35-44.

L’amara storia di Giuseppe Ceri,il censore dell’edilizia bolognese, “Il Carrobbio

E. GOTTARELLI,” III (1977), pp. 205-220.

E. GOTTARELLI, Ascesa e caduta di Alfonso Rubbiani, il “cavaliero papista”, “Il Carrobbio”, anno II (1976), pp. 191–202.

F. GOVONI, La prima visita pastorale nella nuova chiesa di S. Matteo della Decima, “Marefosca” 36(sett. 1994), pp. 59-67.

F. GOZZI, Una corte signorile nel territorio persicetano. Il Guercino alla Villa Giovannina, “Marefosca” 3 (ago.1983), pp. 3-8.

F. GOZZI, Una corte signorile nel territorio persicetano. La villa Giovannina, in “Marefosca” 1(nov.1982), pp. 3-5; 2 (apr.1983) pp .3-6. N

G. GUIDICINI, Cose notabili dellaCittà di Bologna ossia Storia Cronologica de’ suoi stabili sacri,
pubblici e privati,
tomo II, Bologna 1869.

Liberty in Emilia, catalogo della mostra, Bologna 1988.

C.C. MALVASIA, Felsina pittrice, vite de’ pittori bolognesi del conte Carlo Cesare Malvasia con aggiunte, correzioni e note inedite del medesimo autore, di Giampiero Zanetti e di altri scrittori viventi, 2 voll., Bologna 1841.

A. NICOLI, Un palazzo finto per un fabbro e un falegname, “Strada Maestra” 16 (1983), pp. 131-41.

M. ORETTI, Le pitture nelli Palazzi e case di villa del Territorio Bolognese. Notizie raccolte dal Sig. Marcello Oretti Accademico d’Onore dell’Instituto delle S[c]ienzedi Bologna, ms. ca. 1770, (Biblioteca Comunale dell’ Archiginnasio di Bologna, ms. B.110).

A. ORSINI, Memorie Storiche della Villa Giovannina presso Cento, in: Selva Enciclopedica disposta di nomi e cose notabili centesi (Cento, Archivio Antico del Comune ms.120, quad. 70, ff. 16-23).

A. ORSINI, Sunto storico-artistico-statistico della città di Cento, Cento 1923.

B. PIRANI, La Villa Giovannina presso Cento, “Corriere Padano”, 26 gen. 1933.

L. POLUZZI, Storia delle novennali estrazioni dei beni della Partecipanza agraria di San Giovanni in Persiceto. Dalle origini alla sessantasettesima estrazione, “Marefosca” 11 (apr. 1986), pp.31-39

R. RENZI – M. GANDINI (a cura di), Persiceto (1857-1911), L’album fotografico del sindaco Lodi, Casalecchio di Reno 1981.

O.C. RIGHETTI DONDINI, Le pitture di Cento e le vite in compendio di vari incisori e pittori della stessa città, Ferrara 1768.

V. TOFFANETTI, La Casa della Decima. Storia delle origini di San Matteo della Decima, San Matteo della Decima 1989.

M. TRAPANI, Nello spirito e nell’intimità di Jolanda, Bologna 1936.

A. VECCHI, Le collezioni d’arte degli Aldrovandi Marescotti, in: I padroni della villa, cit., pp.98-104

Alberto Tampellini