La torre del Cocenno. Franco Ardizzoni

La torre del Cocenno, un tempo in territorio bolognese, si trova oggi in comune di Poggio Renatico e la si può vedere percorrendo la strada che da San Carlo di Sant’Agostino porta appunto a Poggio Renatico: dopo circa un chilometro da S. Carlo, sulla destra, passato il ponte sullo scolo Riolo. La torre faceva parte di un sistema difensivo (Amedeo Benati – Strenna Storica Bolognese. 1989) realizzato dal comune di Bologna nei secoli XII e XIII per contrastare il potere dei marchesi d’Este, signori di Ferrara, con i quali era frequentemente in lotta. Il primo avamposto di questo sistema difensivo fu il castello di Galliera e relativa torre (scudo e difensione di tutto il contado bolognese verso il ferrarese, così afferma il Senato nel 1296), costruiti dal comune bolognese  alla fine del XII secolo. Successivamente, nel 1242, come riferisce lo storico Cherubino Ghirardacci nella sua “Historia di Bologna”, i Bolognesi costruirono la torre dell’Uccellino ( nella terra di Lusolino) a pochi chilometri da Ferrara spostando così verso nord il confine fra il territorio bolognese e quello ferrarese. Nel 1305 fu edificata la torre Verga (non più esistente), nei pressi dell’attuale Mirabello, che in quei tempi faceva parte del territorio di Galliera, allora vastissimo. Ma prima della torre dell’Uccellino fu costruita quella del Cocenno, anch’essa in territorio di Galliera. Tutte queste torri erano poste a guardia di strade e di canali navigabili, che collegavano il Bolognese con il Ferrarese.       La torre del Cocenno in una foto attuale. Purtroppo lo stato di degrado è molto avanzato, soprattutto per quanto riguarda le case che vi sono addossate, un tempo di proprietà dei Padri Olivetani di San Michele in Bosco di Bologna. (Foto Franco Ardizzoni) 

Il 3 novembre 962, e di nuovo nel 976, è nominato il ripatico, cioè una tassa sull’attracco,  della Galliera e del Cocenno (due canali navigabili) di spettanza della Corte di Antoniano (donata dall’imperatore Ottone il Grande al prete Erolfo, presbitero della Chiesa di Arezzo).

La torre fu costruita nel 1233 proprio nel punto di confluenza del Cocenno (canale proveniente dal territorio centese) con il Riolo. La data di costruzione, già riportata da Donato Toselli nel suo volume “Sant’Augustino de Paludibus”, è indicata su una lastra in cotto murata a destra della porta posta al primo piano della torre. Questa lapide, per il suo colore rossiccio, che la confonde con le pietre di cui è costruita la torre, è sfuggita ad alcuni famosi studiosi (fra i quali padre Edmondo Cavicchi ed Ugo Malagù). Non è sfuggita invece a Gianna Andrian (oltre che a Donato Toselli), di S. Martino di Ferrara, la quale l’ha fotografata ed ha consegnato una copia della foto a Luciana Succi di Ferrara che a sua volta, gentilmente, l’ha passata al sottoscritto.

La torre, coi terreni circostanti, appartenne per lungo tempo, (almeno dalla metà del Cinquecento fino alla fine del Settecento) ai Padri Olivetani di San Michele in Bosco di Bologna. I terreni (oltre 300 tornature) venivano ceduti in affitto a mezzadria, ed intenso era l’allevamento del bestiame, introdotto in queste terre da Leggi Tutto

Porta Capuana, edilizia “popolare”. Angela Abbati

Il Castello di S. Giorgio fu riedificato alla fine del XIV secolo su di un preesistente impianto di antica origine, ma le parti in muratura furono completate dopo il 1403 (?) con l’arrivo a Bologna del nuovo Legato Pontificio Baldassarre Cossa. Le sole parti ricostruite del Castello, il quale non era circondato da mura, ma da palizzate, da terrapieni e da larghe fosse, erano le due porte munite, l’una verso Bologna e l’altra verso Ferrara. Rimane ancora quella che volge a settentrione e Ferrara[1]               In queste immagini della fine dell’800, inizi 900, la Porta Ferrara (o Capuana) appare come era prima del restauro eseguito nel 1913 ed è abitata. La merlatura (che nel suo aspetto originario doveva essere scoperta) risulta tamponata con mattoni a vista, mentre erano state create delle piccole aperture per le finestre. Anche l’arco centrale, prospiciente l’interno del paese, era chiuso da una grande meridiana incastonata, di origine forse settecentesca .La presenza dei camini lascia inoltre supporre che al piano superiore vi fossero delle stufe o caminetti che consentivano di poter riscaldare l’ambiente. Tutto ciò garantiva un certo grado di abitabilità  all’edificio.

Ma chi erano gli abitanti di Porta Capuana?

Una leggenda popolare narra che nell’Ottocento un carrettiere di San Pietro in Casale si era innamorato della figlia del carceriere di San Giorgio, ma il padre della ragazza (a causa dell’antica rivaltà  tra i due paesi contigui) non vedeva di buon occhio l’unione. Allora il giovane escogitò uno stratagemma per poter vedere l’amata: aggredì un carabiniere per poter essere arrestato e finire in carcere, che si trovava allora proprio. all’interno della Porta Capuana.

Al di là  della veridicità  di quanto racconta la leggenda ottocentesca riguardo la presenza di un carcere  (o per lo meno di una guardina)  dentro la porta Ferrara, è comunque assai probabile che circa un secolo fa la porta assolvesse una funzione di tipo abitativo. Lo attestano le foto dell’inizio del ˜900.                 

  Dal confronto tra le fotografie precedenti e quelle immediatamente dopo il restauro del monumento,condotto nel 1913[2], si possono rilevare i principali obiettivi di quell’intervento.Oltre al consolidamento del fabbricato e all’eliminazione degli evidenti guasti, il restauratore di allora si proponeva come finalità  prioritaria di rimuovere i tamponamenti presenti in facciata, resi necessari dall’uso residenziale a cui era stato adibito l’edificio in favore delle persone indigenti.

La rimozione del tamponamento che accecava l’arco posto verso la piazza principale, aveva comportato la distruzione dei resti di quella bella meridiana dipinta rappresentata nelle antiche fotografie.

Recentemente l’amministrazione comunale di San Giorgio di Piano ha approvato un progetto di sistemazione della Porta Ferrara, redatto dall’Ufficio Tecnico Comunale.

Il progetto di restauro, elaborato dall’architetto Pier Franco Fagioli, si propone di valorizzare le caratteristiche storico-artistiche Leggi Tutto

La torre “Conserva”. Agonia di un edificio. Franco Ardizzoni

La torre Conserva è un edificio di fine Quattrocento o inizi Cinquecento, che si scorge sulla sinistra percorrendo la strada S.Alberto, da S.Pietro in Casale verso S.Vincenzo, appena dentro il territorio di Galliera ed è posta al n. 5 della omonima via Torre. E’ una casa-torre sviluppata su tre piani dell’altezza complessiva di circa 18 metri e con una base leggermente rettangolare di circa  mt.8×6, ai cui lati sono state addossate due ulteriori costruzioni .
Costruita probabilmente dai Malvezzi, antica famiglia senatoria bolognese, i quali nel XV secolo,  possedevano molte terre nella zona a partire da S. Alberto (oggi in comune di S. Pietro in Casale), attraversando parte del comune di Galliera, e verso il territorio ferrarese fino alla località  Raveda, nei pressi di Mirabello.

Allora il fiume Reno non aveva l’attuale percorso, ma da S. Agostino proseguiva verso nord immettendosi nel Po all’altezza di Porotto ed il territorio bolognese arrivava fino alla torre Verga (oggi non più esistente) appunto vicino all’attuale Mirabello, per cui i Malvezzi potevano  coltivare ed amministrare le loro terre senza troppi impedimenti, non avendo l’ostacolo del fiume.

La torre si trova a poca distanza dal Palazzo della Tombetta, villa padronale costruita dalla stessa famiglia e sede della tenuta Tombetta, un vasto tenimento di 570 tornature che nel 1801 Francesco e Giuseppe Malvezzi vendettero ad Antonio Aldini e che nel Leggi Tutto

“Dolce come lo zucchero”. Convegno a Baricella. Programma

Convegno a Baricella, promosso dal Gruppo Studi . 9 ottobre 2004, ore 20,30. Programma-Invito

  Baricella , 9 ottobre 2004, ore 20,30, Sala Auditorium, via Europa, 3.

Convegno sul tema
DOLCE COME LO ZUCCHERO”


La barbabietola, una radice comune  tra Europa e bacino del Mediterraneo”, promosso dal Gruppo Studi della Pianura del Reno, con il patrocinio del Comune di Baricella e la collaborazione della Co.Pro.B di Minerbio  e del Museo della civiltà contadina di S. Marino di Bentivoglio.

In apertura, saluti della Prof.ssa Gloria Bedeschi, Assessore alla cultura del  Comune di Baricella e di Magda Barbieri , presidente del Gruppo studi.

Relazioni di :

Prof. Giorgio Mantovani, Presidente ANTZA su “ Lo sviluppo della coltivazione della barbabietola e della produzione dello zucchero nei Paesi del Mediterraneo”.

Dott. Francesco Fabbri , responsabile della didattica e Conservatore presso il Museo della civiltà contadina, su “Napoleone I°Imperatore e la barbabietola da zucchero. Come si può fare storia attraverso la storia di una pianta”.

Maestro Gastone Quadri, Direttore del giornale municipale di Baricella, su “Quando le barbabietole viaggiavano in treno ( vaporino e littorina…) da Malalbergo a Bologna”.

Dott.ssa  Rosalba Giofre’, Medico di base, Specialista di medicina interna presso il Centro medico di Castello Leggi Tutto

Incolato e Partecipanze Agrarie. Brevi note. Magda Barbieri.

In risposta ad una richiesta , pervenuta al nostro sito da parte di un lettore di Monaco che conosce l’italiano ed è interessato all’economia del centopievese crediamo sia utile spiegare  che “incolato” è vocabolo di antica origine e si riferisce all’obbligo di residenza per aver diritto alla divisione periodica dei “capi” (o parti di terreno) delle Partecipanze agrarie emiliane.
Ovviamente, per capire bene il significato di questo termine nel suo contesto, occorrerebbe conoscere, almeno per sommi capi, origine e organizzazione delle Partecipanze, ma è difficile  spiegarlo  in un testo di poche righe.

C’è una ricca bibliografia in materia , ma si tratta di pubblicazioni di storia locale che probabilmente non si trovano nelle biblioteche e nelle librerie all’estero; e anche in Italia, al di fuori dell’Emilia. Sommariamente, posso ricordare che le Partecipanze Agrarie tuttora presenti e attive in Emilia-Romagna sono 6 e si trovano nei Comuni di : Pieve di Cento (Bo), S. Giovanni in Persiceto-Decima (Bo),  S. Agata Bolognese (Bo), Medicina-Villa Fontana (Bo), Cento (Fe), Nonantola (Mo). Era importante e  attiva anche quella di Budrio (Bo), soppressa nel 1930 . Tutte hanno lontanissime origini che risalgono al Medioevo, tra XI e  XII secolo nella prima formulazione, e , sia pur con regole e storie parzialmente diverse, si può dire che derivano tutte da concessioni , fatte da Abati o Vescovi con poteri feudali, alle popolazioni locali, di vaste aree di terreni paludosi o boschivi da bonificare e coltivare; aree assegnate in proprietà  comune e in perpetuo ai capifamiglia del luogo e ai loro discendenti maschi, da suddividere e scambiare periodicamente tra essi, con il divieto assoluto di alienazione o di trasformazione in proprietà  privata dei singoli Partecipanti. Ogni Partecipanza è regolata da antichi e complessi Statuti, che sono stati nel corso dei secoli solo in parte modificati e aggiornati, ma che conservano alcune regole basilari immutate nel tempo. Una di queste regole è appunto quella dell“incolato”, che sancisce  l’obbligo di residenza ininterrotta e continuativa del Partecipante  nel territorio di competenza della sua  Partecipanza,  per almeno 2 anni prima dell’inizio delle operazioni di divisione dei terreni e di assegnazione dei “capi”. Assegnazione che viene fatta  ogni 20 anni per alcune Partecipanze, o ogni 9  per altre.

Va ricordato anche che il diritto all’appartenza ad un Partecipanza è riservato solo agli uomini che portano determinati cognomi e sono sicuramente discendenti da quel primo nucleo di famiglie che beneficiarono della prima concessione. Ed è proprio grazie a questa regola che certi cognomi sono diffusissimi in questi comuni (basta consultare l’elenco telefonico…) e pochi dei cognomi originari sono estinti.
Questa singolare istituzione di proprietà fondiaria comunitaria, pur essendo circoscritta  in alcune aree e con “capi” di modesta estensione, ha avuto ed ha tuttora un ruolo rilevante per l’economia agricola e per il contesto sociale delle località   in cui si trovano le Partecipanze. Ed è anche molto sentito e coltivato l’interesse per Leggi Tutto

I masadur (I maceri). Luciano Manini

Se parlare di maceri (come tutto ciò che riguarda la gente che in passato lavorava la terra) per coloro che parlano e/o scrivono sull’argomento, attingendo a fonti bibliografiche o comunque al di fuori del che cosa è lo specifico, in certi casi emergono chiari il pressappochismo, la scarsa conoscenza, in qualche caso la mistificazione; per chi ne parla avendo vissuto quella realtà  dall’interno non corre il rischio suddetto o delle imprecisioni o delle superficialità  circolanti in materia sotto l’aspetto tecnico, ma quello di considerare ovvio o dare per scontati determinati fatti, conoscenze, azioni o altro che, per chi non ne è addentro, può essere utile o importante almeno come chiarimento.

Ciò premesso, cominciamo col vedere i maceri: costruiti in profondità  e senz’argini rispetto al piano del terreno, poi riempiti d’acqua per la macerazione della canapa e altri usi, in quella palude che già  i romani cominciarono a bonificare, centuriare, coltivare. Poi, fra alterne vicende di riallagamenti, abbandoni e riprese di prosciugamento, si giunge fino all’ultima definitiva bonifica; dopo la quale sono venute in essere queste che possono essere definite vere e proprie costruzioni. Quindi i maceri si trovano in un territorio ben definito (parleremo di quelli della provincia di Bologna) che, data la loro struttura nel luogo, hanno funzioni plurime, varianti nei diversi periodi dell’anno e, se il rapporto Leggi Tutto

La barbabietola da zucchero nella pianura bolognese.Vincenzo Tugnoli

L’importanza agronomica di questa coltivazione richiede particolare attenzione nell’applicazione delle pratiche di campo, soprattutto nella pianura, dove predominano suoli ad elevato tenore di argilla.
La barbabietola da zucchero appare, sulla base della esperienze fino ad ora acquisite ed in particolare in questi ultimi anni, come una coltivazione di difficile gestione, fortemente soggetta ai condizionamenti del clima e di errate applicazioni delle tecniche colturali. Negli ultimi 40 anni la resa in saccarosio ha subito flessioni annuali anche superiori al 20%; a partire dall’80 si registra una parità  rispetto ad ora, quasi a segnalare che innovazione tecnologica non abbia prodotto vantaggi.

Errori applicativi costano ora più cari, sia per l’elevato impegno economico richiesto sia per l’incidenza che possono avere su un reddito finale sempre più indirizzato al ribasso.
In un clima di vacche magre non è più ammesso seguire linee operative non idonee alle esigenze ambientali e tecniche richieste dalla coltura.
La tecnica risulta quindi l’unica arma in grado di apportare miglioramenti produttivi tali da soddisfare anche l’economia della coltura; prospettive di innalzamento dei prezzi di vendita delle radici di barbabietola all’industria di trasformazione, appaiono allo stato attuale improponibili ed insperati, per cui non rimane altra strada che valorizzare le produzioni agricole.
L’impegno Leggi Tutto

Lino e canapa in pianura.

Nella prima metà  del ‘300 nella valle Padana erano diffuse due coltivazioni erbacee: il lino e la canapa.
Il lino importato dall’Egitto e dall’Asia  Minore veniva coltivato nelle nostre zone temperate e umide per ricavarne la fibra tessile. Venivano utilizzati anche i semi per ricavarne farine ad uso terapeutico, come impiastri essudativi.

La canapa, anch’essa importata dall’Asia centrale, veniva coltivata per ricavarne fibra, semi e oli utilizzati nella preparazione di saponi e vernici

Il lino, pianta molto antica, è coltura e fibra più ricca, meno popolare, legata a costumi, consuetudini delle genti ricche che facevano lavorare la tela di lino per gli oggetti del corredo.
Il filo di canapa a differenza da quello di lino è ruvido, irregolare, secco arduo da addomesticare. Ma le filatrici e le tessitrici di una volta, prendendo fuori dai cassetti manufatti in canapa orgogliosamente, ci dicono[1]:

Questa è stata seminata, poi cresciuta, lavata, mondata, tirata. Veniva fatta la tela. Questa è quella che ho fatto io per mia figlia, morbida.Mia nuora con quattro di queste pezze di tela ha fatto il pizzo e le ha unite e ha fatto una tovaglia quadrata. Qui c’è un asciugamani. Per fare questa qui ci si metteva la stecca per potere passare il filo. Con il cotone, che è tutto uguale, non c’era bisogno di imbusnerl. Con la canapa era diverso, bisognava per farla metterci qui una stecca perchè stesse tirata.

(cosa vuol Leggi Tutto

Prime esperienze di bietola biologica. Vincenzo Tugnoli

Dopo due anni di sperimentazione  le tecniche agricole adatte ai nostri ambienti, appaiono più chiare; problema principale il controllo delle malerbe. Ancora da valutare i processi di trasformazione in zucchero biologico.

Coltivazione biologica Non si registrano però coltivazioni di barbabietola atte a produrre zucchero biologico.
In Europa questo tipo di tecnica è gà  in fase di avvio nel settore bieticole, con alcune migliaia di ettari in: Svezia (600), Inghilterra (350) Danimarca (100) ed ora anche in Germania e Svizzera.

Il fatto che la barbabietola in Italia non sia ancora stata ampiamente coinvolta da questo sistema di coltivazione, è molto strano e preoccupante. L’utilizzo di zucchero tradizionale per la produzione di alimenti con il riconoscimento biologico, è stata fino allo scorso anno consentita da una deroga prevista dalla stessa normativa in essere e che regola la definizione di coltivazione biologica. Tale deroga era però valida fino al 1 aprile del 2003 (Parte C: Ingredienti di origine agricola non prodotti biologicamente, di cui all’art.5, paragrafo 4 del Reg. CEE 2092/91); a partire da quella data tutto il materiale utilizzato per la produzione di cibi biologici dovrà derivare da prodotti agricoli ricavati seguendo esclusivamente le tecniche previste dalla legge 2092/91, compreso quindi anche la barbabietola e lo stesso zucchero.
Alcune domande appaiono ovvie ed urgenti: perchè di questo problema il nostro settore Leggi Tutto

Gelsi e seta in pianura .

Un importante filato veniva prodotto nelle nostre campagne: la seta.
La produzione della sete va di pari passo con la coltivazione del gelso.
L’importanza del gelso non è fine a se stessa ma strettamente legata ad un bruco che vive sul gelso, infatti viene chiamato bombice del gelso (bombyx mori), la cui larva comunemente chiamata baco da seta si nutre delle foglie del gelso.
Il bombyx mori sarebbe l’effetto della domesticazione della Theophilia mandarina, lepidottero assai comune in Asia.  Si hanno notizie di allevamenti di bachi da seta a scopo economico in Cina presso il popolo dei Seri[i] a partire dal 27° secolo a.C..

La bachicoltura si estese in tutta l’Asia, ma solo nel VI sec. d.C. venne introdotta in Europa, prima in Grecia e poi in Sicilia, ma solo dopo si sviluppò in tutta l’Italia e in particolar modo nel Veneto e nella pianura padana, dove il gelso cresceva bene, portando l’Italia al primo posto tra i paesi sericoli del mondo. Poi si spostò dall’Italia  all’Europa meridionale, in specie nella Francia dove Lione divenne uno dei mercati più¹ importanti per i tessuti e in concorrenza con Bologna che produceva veli e organzini. Per lungo tempo l’Italia importò tessuti di seta dall’Asia senza avere conoscenza di come effettivamente fosse prodotta. Sembra che monaci missionari portassero nel 552 d.C. a Costantinopoli, nascosti dentro un bastone cavo, i primi bachi e le Leggi Tutto