I masadur (I maceri). Luciano Manini

Se parlare di maceri (come tutto ciò che riguarda la gente che in passato lavorava la terra) per coloro che parlano e/o scrivono sull’argomento, attingendo a fonti bibliografiche o comunque al di fuori del che cosa è lo specifico, in certi casi emergono chiari il pressappochismo, la scarsa conoscenza, in qualche caso la mistificazione; per chi ne parla avendo vissuto quella realtà  dall’interno non corre il rischio suddetto o delle imprecisioni o delle superficialità  circolanti in materia sotto l’aspetto tecnico, ma quello di considerare ovvio o dare per scontati determinati fatti, conoscenze, azioni o altro che, per chi non ne è addentro, può essere utile o importante almeno come chiarimento.

Ciò premesso, cominciamo col vedere i maceri: costruiti in profondità  e senz’argini rispetto al piano del terreno, poi riempiti d’acqua per la macerazione della canapa e altri usi, in quella palude che già  i romani cominciarono a bonificare, centuriare, coltivare. Poi, fra alterne vicende di riallagamenti, abbandoni e riprese di prosciugamento, si giunge fino all’ultima definitiva bonifica; dopo la quale sono venute in essere queste che possono essere definite vere e proprie costruzioni. Quindi i maceri si trovano in un territorio ben definito (parleremo di quelli della provincia di Bologna) che, data la loro struttura nel luogo, hanno funzioni plurime, varianti nei diversi periodi dell’anno e, se il rapporto fra conduttore e proprietà  lo permette o non, possono variare anche gli usi e le funzioni stesse.

Di maceri ne esistono di diverso tipo: per dimensioni (specie in lunghezza, da una decina fino oltre i cento metri; la larghezza e la profondità  variano notevolmente a seconda del tipo) difficilmente se ne trovano di uguali .

Non entriamo ancora nel merito tecnico dell’argomento in quanto sono d’obbligo, per capire che cosa è un macero, alcune considerazioni di carattere generale, dalle quali non possiamo prescindere. Per fare questo non ci serviremo di bibliografie, enunciazioni verbali, iconografie d’archivio, raccolte museali… appartenenti alla dottrina ufficiale, in quanto non sempre affidabili, non sempre dotati della necessaria cognizione di causa, anche da esperti, veri o presunti. Lo scrivente preferisce fare da solo (con tutti i rischi che questo comporta), approfittando della propria diretta esperienza di anni di mezzadro prima, e di altri anni di òvre (bracciante) poi; durante i quali ha avuto occasione di lavorare in parecchi tipi di macero; inoltre, ha ampliato la propria conoscenza ed esperienza in molti anni di ricerche sul territorio, a tutto campo. Per entrare nell’intimo dell’argomento sarebbe opportuno usare un linguaggio idiomatico ma non essendo questo possibile (per ovvie ragioni) affronteremo l’argomento in lingua e, per quanto possibile, in termini appropriati sotto il profilo tecnico-pratico, senza aloni di letterarietà  dottorale che sarebbero fuori luogo.

Il macero, nella nostra storia, cultura, vita, condizioni, lavoro, linguaggio e quant’altro, se non è inquadrato nella sua oggettività  iconologica (come insegna Erwin Panofsky), non può essere culturalmente credibile, nè storicamente attendibile. Per esserlo deve essere misurato col metro culturale e linguistico della gente che l’ha vissuto; poi, eventualmente, si potranno ipotizzare unità  di misura diverse, sempre che non snaturino il concetto. Quindi, estrapolare l’argomento da detta oggettività , perde il proprio significato, l’essenza, senso, spirito… e può essere qualsiasi cosa.

Una corretta metodologia di ricerca ci impone, per avere un risultato valido ed attendibile come documento, di ricercare la storia e la cultura là  dove sono, così come sono, per quello che sono inoltre, nel nostro caso, è indispensabile, in quanto cultura orale, la conoscenza dell’idioma. Il macero è legato ad azioni, attrezzi, elementi che sono propri dei vari aspetti del lavoro del macero stesso e/o che sono legati, direttamente o indirettamente, a quelle operazioni e che hanno un nome e un senso là dove queste avvengono; a cominciare dalla costruzione del macero, nella sua messa in opera, fino all’ultimo e più svariato uso che se ne possa fare, compresi tutti i lavori per la sua conservazione e mantenimento strutturale.

Questo idioma non regolato, senza norme riconducibili ad alcun codice linguistico se non a se stesso; confrontato con vocabolari, sia in lingua, sia in dialetto bolognese, troviamo parole che esistono nei vocabolari e non in esso idioma e viceversa, quindi mancanza di parole corrispettive dello stesso elemento; quando queste esistono non sempre hanno lo stesso significato o sono la stessa cosa; es. C.   Coronedi Berti VOCABOLARIO DIALETTO BOLOGNESE – ITALIANO: il nostro masadur (it. macero) lo definisce masnadur, che per noi è il plurale della parola italiana macinatore. Questo ci dimostra che se portiamo un linguaggio fuori dal proprio ambiente o ambito d’azione, probabilmente non serve, subisce pseudomorfosi, perde il proprio senso, quindi sparisce naturalmente; ma se esiste è certo che ha una sua precisa funzione.

Per contro: nel proprio ambito ed ambiente non servono altri linguaggi (codificati o non) ma serve quel termine per capire in tutto il suo insieme l’argomento di cui si parla. Questo dialetto non è gergo di una categoria ma lingua, codice di comunicazione per tutti e, per chi si occupa seriamente di questo tipo di etnografia, è paradigma di tutto ciò che riguarda la cultura, il grado di evoluzione, la civiltà, la storia della gente dei campi e ognuno dei propri strumenti, azioni, operazioni, e quant’altro di questo enorme giacimento culturale.

Le parole componenti questo linguaggio assumono ancora maggiore importanza in considerazione della oralità  della cultura alla quale appartengono e che sono state da essa stessa prodotte per l’esprimersi delle persone e trasmettersi, per secoli, di generazione in generazione, l’universalità  di tutti i valori, in esse contenuti. Quindi: o conosciamo questo idioma o non potremo conoscere nell’intimo, nell’essenza, nello spirito questa entità  culturale. Chi scrive non ha mai udito parole, nè letto un colore comportamentale o ambientale che non fosse astratto da quell’esistere; nè un accenno ad un odore che, anche privi di vista, ci dice il periodo dell’anno, l’eventuale lavoro che si sta facendo, la condizione del macero o altro; che cosa ci comunica l’ambiente del macero con i suoi silenzi, o le varietà  di suoni, rumori, voci (anche improvvisi) che giungono al nostro udito, che col linguaggio si trasmette e viene indubitabilmente percepito da chi lo vive; così   dicasi per ogni qual cosa che riguarda la percezione del tatto.

Il macero rappresenta una grossa fetta del nostro passato e ne ha fortemente condizionato la vita di noi che l’abbiamo vissuto contadino. Tralasciamo il concetto intellettuale, accademico e quello di città  (solitamente di stampo borghese) che, più che darci la definizione di contadino, definiscono loro stessi al contadino medesimo. Per la gente campagnola il solo, l’unico contadino è quello riconosciuto dalla propria entità  culturale, cioè il mezzadro o colono; tutti gli altri non sono contadini, come sono impropriamente definiti dalla dottrina ufficiale e dal borghese di città , rispetto al significato da essa gente dato; la quale si divideva in varie appartenenze ben definite, secondo una scala gerarchica che andava dai proprietari terrieri giù fino ai mestieri della fame e ai barboni questuanti per la propria sopravvivenza. La non conoscenza del che cosa è un contadino è fonte di malintesi fra le tre entità  culturali ed è facilmente verificabile: basta sentir parlare un cittadino o leggere certe pubblicazioni riguardanti la materia e ce ne accorgiamo subito.

A questo punto è d’obbligo qualche domanda: che cosa è il macero per il contadino? e per chi non lo è?  inoltre: che cosa è il macero per ognuna delle tre entità  culturali?

Per la parte dotta lasciamo la risposta agli accademici, anche se non sempre è la stessa dei risultati della ricerca sul campo; per il cittadino è un concetto molto vago, incerto, che non va oltre la conoscenza di abitatore del contado e che lavora la terra, anche se altre categorie campagnole lavorano la terra senza essere contadini. Questo per chiarire che quando parliamo di contadini non sempre intendiamo la stessa cosa e, per non incorrere in sviste è bene verificare che cosa è il contenitore di cultura dal quale esce, sia esso persona o documento, altrimenti si parte col piede sba­gliato; il macero, se non un paradigma, ne è certo un esempio. Perfino nella conoscenza stessa della gente di campagna il macero può essere co­sa diversa da famiglia a famiglia: per il contadino è ciò che gli permette la proprietà; per un piccolo proprietario o un affittuario è ciò che egli stesso se ne fa.

Parlando, qualche volta, con appartenenti a ceti alti della cultura, di quello che è stato il nostro passato si odono affermazioni come: “dettagli trascurabili”, “particolari di poca importanza”, “aspetti marginali”… ma a rifletterci e a tener conto della oggettività di quella realtà, nasce spontanea qualche altra domanda: chi lo stabilisce?, con quali criteri?, con quale competenza?, che cosa è questo chi?.., gli addetti ai lavori cosa ne dicono?, danno lo stesso valore e lo stesso significa­to alla stessa cosa come gli appartenenti alla dottrina canonizzata?… es. prendiamo un baňcàtt da lavær: per l’addetto ai lavori è ovvio che sì intende lavare la canapa per chi non è addetto, certo, può essere un “dettaglio trascurabile”! ma chi doveva lavare la canapa, come avrebbe potuto fare, in quella circostanza, senza questo “dettaglio”?.., diffi­cilmente ci sarebbe riuscito, specie nei maceri di ultima concezione; lo stesso è per qualsiasi altro attrezzo o lavoro o parola… non solo nei lavori del macero ma di ogni e qualsiasi altra attività della gente che lavora la terra. Qui appare chiara la differenza di importanza della stessa cosa nei vari concetti cuIturaIi e che, generalmente, si valutano gli argomenti secondo la propria ottica conoscitiva. Poiché “l’occhio vede ciò che la mente conosce” (affermava sovente J. W. Goethe) ci ac­corgiamo della (forse involontaria) pratica egemonica della intellighenzia accademico-intellettual-amministrativa, la quale, astratta dal con­cetto reale dell’argomento, proietta una visione distorta su una chiara oggettività delle altre entità culturali e non solo; forte di questa sua funzione egemonica le rende subalterne, quando addirittura non le mistifica o le cancella.

Quando l’etnologia e con essa l’etnologa Prof.ssa L. Faldini (catte­dra all’Università di Genova) ci insegnano, nella ricerca, di partire sempre dall’indigeno, ci indicano anche il che cosa e il dove. Inoltre, an­che se l’indigeno non ne è consapevole, il problema si pone altresì in senso inverso; così per il concetto della gente di città, accademici, intellettuali, “esperti” e per le genti di montagna e campagna. Se le do­mande su ciò che ricerchiamo sono pertinenti alla ricerca stessa, se è corretta la metodologia d’indagine, se è attenta e rigorosa l’analisi, nel quadro di familiarità con temi e concetti di panofskiano insegnamen­to, il risultato è scientificamente attendibile; e come tale, da qualsiasi parte lo si esamini è pari ad un risultato matematico: non cambia. Questo ci dice pure che ogni entità culturale ha una sua unità di misura, che nasce dall’entità medesima, per misurare sé stessa e le altre. Ma, mentre per la cultura con la ‘C’ maiuscola abbiamo biblioteche, ar­chivi, vocabolari e quant’altro, per la cultura di città abbiamo vocabolari di Dialetto Bolognese – Italiano, parlanti, raccolte bibliografiche ed altro; per la campagna e la montagna abbiamo quasi esclusivamente l’oralità, l’idioma; che è biblioteca, archivio, enciclopedia, vocabola­rio… in somma: quasi tutto il magazzino del nostro sapere, per conoscerne l’essenza, lo spirito… di questa realtà.

Per cui, per ognuna delle entità culturali, un “aspetto marginale” può essere elemento molto importante nella conoscenza delle altre, non solo in se: ma anche perché quell’aspetto marginale, quel dettaglio trascurabile, messo insieme ad un altro e ad un altro ancora, forma il reticolo, il plurisfaccettato mosaico del quotidiano che è l’oggettività di tutto ciò che è l’autoctono nelle sue problematiche; al pari del sistema periodico degli elementi composta da Mendeleev, dove ogni elemento ha valenze per aggregarsi con altri e formare composti, poi materia; che è la storia, la cultura, la civiltà, la vita in quel luogo, per quella gente, da analizzare poi nel­le pseudomorfosi di tempo

 Per chiunque si occupa di questo tipo di etnografia in modo corretto, per un lavoro scientificamente attendibile (fra questi l’ex Direttore del Centro Etnografico Ferrarese Dr. Renato Sitti, lo scrittore Armide Broccoli, l’attuale Direttore del C.E.F. Dr. Gianpaolo Borghi…) ad un certo punto s’accorge che ogni elemento (piccolo o grande che sia) non è che il risultato di un qualcosa che avviene prima ed è preludio a ciò che poi sarà : una piccola tessera nel percorso di spazio e di tempo nell’enorme puzzle della materia in questione. Per arrivare a questo è necessario, indispensabile, avere quella familiarità con temi e concetti più sopra detti a cominciare dalla semantica idiomatica, che ne è la chiave introduttiva e la guida lungo tutto il percorso della conoscenza. Senza dimenticare che una parola, una locuzione può avere significato diverso a seconda del contesto nel quale si trova.

Si potrebbe obiettare, viste le traducibilità delle lingue stranie­re, di tradurre l’idioma in lingua; nulla lo vieta! ma non possiamo fare a meno di considerare che una lingua straniera è sì la manifestazione di un’altra cultura, ma, anche questa rappresentata da una elite come quella italiana, più o meno parimenti evoluta, quindi regolamentata. Mentre l’idioma, il linguaggio, il dialetto in oggetto è cultura orale e, abbiamo visto, non regolamentato e rappresenta una civiltà di secoli di ignoran­za, anche coltivata ad hoc, rispetto all’ufficialità della cultura cor­rente; quindi evolutasi in e su se stessa, e per capirla bisogna entrarne nel meccanismo, se non si vuole mettere in dubbio l’attendibilità del contenuto di ciò che si dice sia. E la frase che in passato si udiva, fra le tante altre, riferita a chi aveva in mano le sorti culturali, so­ciali, economiche.., del paese, della comunità…: j haň studiê trôpp par capîr zerti cös! ci accorgiamo che, se analizzata correttamente, nella sua identità iconologica, non è priva di fondamento. Almeno alla luce di quello che si vede e di quello che non si vede su questa nostra materia  ai giorni nostri.

A questo punto, dopo le suesposte riflessioni, tenuto conto che sulI’ argomento maceri bisogna anche considerare: a) la posizione logistica rispetto al fondo (podere) o abitazione della famiglia, che ne varia la organizzazione del lavoro; b) il rapporto di proprietà , che ne può variare o limitare uso e funzioni; c) la eventuale collettività , che ne deve (generalmente) preventivare la spesa; d) il tipo, che nella maggioranza dei casi, obbliga a variarne la tecnica; pur con tutti i nostri limiti possiamo porre la prima domanda per un percorso di ricerca su quello di cui stiamo parlando, che è rituale: cussâ  l’è masadur? risposta:  masadur ; e questo vale per ogni e qualsiasi elemento della storia, cultura, civiltà … della gente che lavorava la terra.

Luciano Manini

(*) Le foto 1 e 2 sono tratte dal volume “Rappresentazioni fotografiche del lavoro agricolo”. A cura di  Roberto Roda. Ed. Comune di Ferrara/Centro Etnografico Ferrarese- Comune di Pieve   di Cento-Comune di Cortona. Interbooks 1985