Lino e canapa in pianura.

Nella prima metà  del ‘300 nella valle Padana erano diffuse due coltivazioni erbacee: il lino e la canapa.
Il lino importato dall’Egitto e dall’Asia  Minore veniva coltivato nelle nostre zone temperate e umide per ricavarne la fibra tessile. Venivano utilizzati anche i semi per ricavarne farine ad uso terapeutico, come impiastri essudativi.

La canapa, anch’essa importata dall’Asia centrale, veniva coltivata per ricavarne fibra, semi e oli utilizzati nella preparazione di saponi e vernici

Il lino, pianta molto antica, è coltura e fibra più ricca, meno popolare, legata a costumi, consuetudini delle genti ricche che facevano lavorare la tela di lino per gli oggetti del corredo.
Il filo di canapa a differenza da quello di lino è ruvido, irregolare, secco arduo da addomesticare. Ma le filatrici e le tessitrici di una volta, prendendo fuori dai cassetti manufatti in canapa orgogliosamente, ci dicono[1]:

Questa è stata seminata, poi cresciuta, lavata, mondata, tirata. Veniva fatta la tela. Questa è quella che ho fatto io per mia figlia, morbida.Mia nuora con quattro di queste pezze di tela ha fatto il pizzo e le ha unite e ha fatto una tovaglia quadrata. Qui c’è un asciugamani. Per fare questa qui ci si metteva la stecca per potere passare il filo. Con il cotone, che è tutto uguale, non c’era bisogno di imbusnerl. Con la canapa era diverso, bisognava per farla metterci qui una stecca perchè stesse tirata.

(cosa vuol dire imbusnerla?)

Vede quello con il filo di canapa? è soffice . Non può fare la tela senza far uso di una colla con farina e tridel dal furmant . Si faceva bollire e poi con un bruschino si faceva una passata con quella colla e allora il pettine passava bene. Serviva per tenere divisi i fili. Perchè questi, uno deve andar su e uno deve andare giù. Ci voleva tanto tempo.Con il cotone si faceva meno fatica, ci si metteva meno tempo, il filo era tutto uguale, ma la tela era meno bella. I lenzuoli di cotone venivano duri, duri, che non servivano niente e duravano poco. La canapa invece è morbida e più resistente e si facevano anche le pezze per le donne.  I ricchi le pezze le facevano di lino con sopra ricamate le iniziali[2]

 Per la crescita delle piante e il procedimento di estrazione mediante macerazione e preparazione delle fibre era necessaria abbondante acqua.

La loro presenza in tutta la pianura emiliana orientale è infatti indissolubilmente legata alle zone di acqua ferma, stagna.

Sia la canapa che il lino  richiedono vasti spazi acquosi, maceri.

La coltivazione della canapa e del lino varia a seconda del tipo di terreno, del clima e della tradizione. Se nell’antichità  il lino era preminente rispetto alla canapa, poi andarono per un certo periodo, nel nostro territorio, di pari passo, poi la canapa prese il sopravvento.

Nella nostra pianura la canapa e il lino, maturi in giugno-luglio-agosto, venivano estirpati a mano dal terreno.

In Emilia la canapa veniva tagliata distinguendo gli steli maschi dagli steli femmine. Prima veniva tagliata a raso suolo, o estirpata, la canapa maschio, che maturava prima, e la canapa femmina che portava i semi veniva successivamente tagliata con la roncola, dopo alcune settimane. Gli steli raccolti venivano messi in fasci o mucchi della stessa lunghezza e legati in mannelli. I fasci lasciati prima ad asciugare all’aperto per un certo tempo, venivano poi immersi in acqua stagnante e venivano appesantiti con massi per far sì che rimanessero sommersi.

Nel territorio Sangiorgese esistevano vari maceri, stagni artificiali estesi, con le rive consolidate da pietre. I fasci rimanevano nei maceri dai tre agli otto giorni o più a secondo che l’acqua fosse completamente stagnante o avesse un certo deflusso. Le mannelle o mannelli venivano rimossi per far sì che la macerazione fosse uniforme: le donne erano adibite a tale lavoro che comportava la sosta a bagno nel macero per la lavorazione, gli uomini si interessavano di rimuovere i sassi che costringevano i fasci sul fondo e allo svuotamento dei maceri. La canapa così macerata veniva poi posta in mucchi perchè l’acqua potesse defluire completamente e poi aperta all’aria e al sole e sopra graticci per l’essiccatura totale. Gli steli di lino, più corti, subivano lo stesso procedimento di macerazione ed essiccazione.

Gli steli snervati dalla macerazione e dall’essiccazione venivano scavezzati, cioè si liberava il tiglio dallo stelo cercando di ottenere fibre il più lunghe possibli. Nell’antichità  erano le donne che nelle lunghe sere di inverno spezzavano gli steli e poi sfilavano le fibre.

Normalmente veniva fatta una lavorazione di scavezzatura o stigliatura a mannelli. Gli steli venivano maciullati con la gramola, un attrezzo che spezzava in più punti la parte legnosa dello stelo.

Alla fine del XIX secolo in Emilia veniva ancora usata la scavzadura o baura una macchina di legno che veniva fatta funzionare da un bue che girava in circolo trascinando una ruota di legno con mazze di ferro sotto alle quali venivano fatti passare i mannelli di canapa. La gramolatura avveniva in due tempi. La gramola aveva forme diverse a seconda del sito in cui veniva usata. In Emilia paese di forte coltivazione canapola erano più evolute. Spesso veniva fatta un’ulteriore operazione dello stesso tipo per liberare la fibra delle ultime tracce di legno[3]

Anche i fasci di lino macerati ed essiccati subivano una lavorazione per separare la parte legnosa dalla parte fibrosa, ma spesso avveniva fatta mediante battitura degli steli su una superficie rigida mediante mazzuoli o magli[4]

Ulteriore operazione per lisciare le fibre era la scotolatura, che consisteva nell’appendere le fibre ad un supporto e poi battere o lisciare i fasci con un attrezzo a forma di spatola (scotola) di legno. Tale procedimento era poco usato nelle nostre campagne.

L’ultima operazione consisteva nella pettinatura per liberare le fibre delle ulteriori impurità  e per spaccare le fibre più grosse. Per ottenere fibra più fine e morbida la pettinatura veniva fatta con pettini sempre più fitti.

I pettini, detti cardi perchè inizialmente nell’antichità  erano ottenuti dai fusti dei cardi spinosi, erano di legno con denti di ferro ed azionati dalle donne a mano. Spesso, quando si voleva una fibra particolarmente bella, erano professionisti che azionavano il cardo; questi lavoratori, si spostavano durante l’autunno e l’inverno da podere a podere con i propri attrezzi.

I prodotti finali della pettinatura e di tutti i lavori preparatori che precedono la filatura erano di due tipi: le sottili fibre pronte per il fuso o il filarino e la stoppa che rimaneva tra i denti dei diversi pettini usati.[5] 

Successivamente la coltivazione del lino è stata abbandonata e si può dire che l’Emilia , specialmente nei dintorni del ferrarese e quindi nel nostro territorio, sia stata sino alla fine della seconda guerra mondiale la maggiore zona canapicola.

L’avvento di tessuti industriali, con filati di origine chimica o di origine naturale ma trattati chimicamente e meno costosi rispetto a quelli di canapa e di lino, hanno fatto regredire tali coltivazioni in quasi tutta l’Italia già  nel periodo tra le due guerre mondiali.

In quel periodo anche i contadini stessi avevano cominciato a rifiutare di vestirsi con il tessuto di lino, di lana od usare in casa tela di canapa che loro stessi producevano, come invece avveniva un secolo prima.

Nella nostra pianura, alla coltivazione della canapa, andò via via sostituendosi la coltivazione della barbabietola da zucchero e la coltivazione di cereali. Ciò era dovuto in parte al fatto che l’Italia, come tutto il mondo europeo, era appena uscita dalla più grave crisi economica che i paesi industrializzati avessero sopportato e contemporaneamente sottostava alla politica dittatoriale del tempo che tendeva a far regredire il deficit granario.

Le bonifiche integrali che tendevano a prosciugare terreni per la cerealicoltura portarono ad un risanamento accelerato delle aree umide e incolte.

L’aumento demografico, stimolato anche con premi alla fertilità  alle madri prolifiche, richiedeva maggiori culture granarie a svantaggio delle culture foraggere comportando uno svantaggio all’allevamento che si andava via via trasformando da transumante e brado a stanziale e stallivo.

La politica autarchica, che imponeva l’utilizzo di prodotti nazionali, favorì il decremento dell’importazione di zuccheri dai paesi esteri produttori a favore della coltivazione bieticola, che, per altro, risultava meno onerosa come mano d’opera e fatica umana rispetto alla coltivazione della canapa.

Dagli scritti di Scheuermaier, che viaggiò per tutta l’Italia agricola, interrogando, fotografando e rilevando anche nei minimi particolari la realtà  rurale, si desume comunque una massiccia persistenza di una tradizione agricola tradizionale ancora strettamente connessa con l’artigianato rurale: produzione e consumo viaggiano ancora di pari passo. Ma le macchine agricole entrano nel gioco e l’avvento sempre più massiccio dell’era industriale nella nostra regione comincia a portar via dalle campagne le forze di lavoro che si avvicinano sempre più alla città.

Era normale per quei tempi che dalle famiglie mezzadrili i giovani, anzi le coppie giovani, intraprendessero ogni giorno lunghi tragitti a piedi per raggiungere le fornaci, le fabbriche che sorgevano nella periferia della città  per poi ritornare alla casa patriarcale alla sera dopo 12-14 ore di lavoro. Ciò portò ad un inurbamento che si accentuò moltissimo dopo il secondo conflitto mondiale.

(da “Storia di San Giorgio di Piano” di A. Bonora, A. Fini, M. Franzoni, in corso di stampa)

NOTE 

[1] Da un’intervista fatta a Lidia Cavani Nanni, che ha passato metà  della sua vita lavorativa in poderi a mezzadria del circondario della pianura bolognese: l’ultimo figlio l’ha “scodellato” a lato del macero sull’erba.
[2] Le  pezze non erano altro che le assorbenti igieniche attuali. Per i neonati, le donne fertili e gli ammalati venivano usati riquadri tessuti a mano. Dovevano essere manufatti morbidi, non irritanti.
[3] Il legno che veniva ottenuto dalla stigliatura, gramolatura degli steli (stecchi) veniva raccolto e serviva per far fuoco d’inverno. Era un fuoco poco consistente, ma vivace ed allegro con un odore particolare. Da bambina durante la II guerra mondiale sono stata in campagna, a Casadio, al riparo dai bombardamenti ed ho potuto seguire la lavorazione della canapa completamente, ma il ricordo migliore rimane per me il profumo acre e particolarissimo del fuoco degli stecchi: voleva dire caldo, riunione attorno al camino e favole e racconti degli adulti e noi bambini che ci assopivamo ammucchiati sullo scalino a lato del focolare.

[4] E’ spesso riscontrabile dalle nostre parti il patronimico Mazzuoli, Mazzoli, Mazzucchi, Magli.

[5] Sono degni di nota i vari nomi con i quali vengono identificati gli attrezzi a seconda del territorio in cui venivano lavorate le fibre della canapa e del lino. Rimandiamo al manuale dello Scheuermaier Il lavoro dei contadini per le varie terminologie.

(*) Nella foto in alto : antico telaio e tele di canapa nel Museo della civiltà  contadina di S. Marino di Bentivoglio