I facchini di Bologna, dalle “balle” alle “balotte”, una storia speciale.

Premessa – Quella dei facchini di Bologna  è una categoria sociale che ha avuto  un ruolo  notevole nella storia popolare cittadina, e merita quindi di essere conosciuta, grazie alla ricostruzione che ne fa il sito “Storia e memoria” di cui riportiamo il testo, insieme ad altre notizie-
“Parlando dei facchini bolognesi di circa un secolo fa, l’indimenticabile Alfredo Testoni diceva, nel suo celebre libro Bologna che scompare: «i facchini erano una vera potenza a Bologna. Scamiciati, con un cerchio d’ottone al braccio, sdraiati per terra al sole o seduti attorno a una catasta di legna, che accendevano in mezzo alle vie per cuocere saracche e abbrustolire polenta, nei giorni di festa diventavano i bùli, appartenenti alla bàla ròssa. Portavano calzoni di velluto color marrone, il giacchetto di panno bleu adorno di bottoni dorati, una fascia rossa in cintura, il fazzoletto di seta al collo, le anella d’oro alle orecchie, il bastoncino di bambù fra le mani e il cappello alto di feltro color nocciola detto èl ràtt».

Nel 1817 i facchini girano in bande per la città e chiedono con insistenza pane e vino. Sono molto temuti dalle autorità per la loro indipendenza e la loro forza fisica. Il Cardinale Legato emana un editto che vieta gli attruppamenti e minaccia venti bastonate per chi elemosina. Un editto successivo obbligherà i facchini ad iscriversi su un registro depositato presso i commissariati di polizia e imporrà loro di portare un contrassegno ben visibile sul petto, che sarà diverso per ogni quartiere. Dovranno collocarsi, in attesa dei clienti, nei posteggi (o trebbi) consentiti e al tramontar del sole di ciascun giorno dovranno ritirarsi disuniti dai posteggi e non ritornarvi che all’alba della mattina susseguente. Molti facchini saranno trattati come mendicanti e rinchiusi nella Casa di Ricovero o convocati nella Casa d’Industria istituita nel 1809 dal governo napoleonico allo scopo di ridurre l’accattonaggio. Qui produrranno su richiesta manufatti di vario genere, destinati alle carceri e ad altri luoghi pii, oppure venduti sulla base di tariffe stabilite dalla direzione.
I provvedimenti repressivi messi in campo non otterranno grandi risultati. La Casa di Lavoro rimarrà in attività, con vari mutamenti gestionali, fino al 1820. Riuniti in bande, i facchini dominano le strade di Bologna, estorcendo denaro ai passanti. Nel maggio 1829 organizzano un ricatto in grande stile, costringendo i carri, che portano in città legna e paglia, a lasciare loro una parte del carico.

Don Giuseppe Bedetti (1799-1889), conosciuto come il prete dei facchini per il suo impegno di assistenza nei confronti della classe popolana moralmente più abbandonata, fonda nel 1838 l’Opera delle Scuole notturne, che promuove l’attività spirituale e sociale di giovani artigiani di età compresa tra i 12 e 20 anni. La prima scuola è aperta nell’autunno del 1839. Nelle ore serali, dopo il lavoro, i poveri ragazzetti imparano a leggere e a far di conto, vengono istruiti nel canto e nel disegno, ricevono un’educazione morale e religiosa. Sempre nel 1838, in ottobre, l’autorità pontificia tenta di limitare il numero dei facchini, ordinando a quanti risiedono in città da meno di cinque anni di tornare ai loro paesi d’origine. Nello stesso tempo si impediscono i trasferimenti nelle zone che tradizionalmente offrono impieghi stagionali.
Nel 1854 i facchini bolognesi si meriteranno anche una commedia a loro dedicata. Il giovane studente Giuseppe Muzzioli mette in scena al Teatro Contavalli la commedia I Facchein ed Bulogna, in dialetto bolognese. Mentre si recita un tradizionale drammone, in teatro si leva un finto battibecco tra attori e pubblico. Si chiede di proseguire lo spettacolo con una storia di facchini e allora gli attori propongono la triste vicenda di Baffiett, facchino dal cuore d’oro. E’ un grande successo: verrà replicato per ben 24 sere e la storia sarà proseguita da Luigi Brighenti con Il ritorno di Giovanni detto Baffiett. Gli ultimi di Bologna diventano protagonisti di un teatro – per la prima volta – veramente popolare.
Negli anni precedenti alla guerra mondiale Raffaele Fabbri, detto Stufifi, reciterà la commedia a Porta Castiglione, come serata d’onore delle balle dei facchini di Mirasole. Le prime file saranno tenute sgombre per i facchini, in ghingheri e totalmente sgurati (ben vestiti e ripuliti), e sul palco suonerà la Banda della Società Operaia. Nel 1907 tra via Indipendenza e porta San Donato iniziano i lavori per l’apertura di una arteria cittadina intitolata al giurista Irnerio e destinata ad attraversare il nuovo quartiere universitario. La strada sarà completata nel 1912 e porterà alla scomparsa di un complesso mondo popolare fatto di piccoli borghi, di vie e viuzze sordide, dove viveva una moltitudine di modesti artigiani, manovali, lavandaie, facchini, ma anche di ragazze di piacere e protettori, ladri e ricettatori.

Così li descrive Bruno Biancini nel 1938: “Chi per le vie di Bologna facesse oggi ricerca di un simile tipo di facchino, rimarrebbe deluso. L’antico, pittoresco costume è totalmente scomparso. Un comune berretto, una giacchetta di tela azzurra e un grembiale bianco per il sudore: ecco l’odierna teletta di fatica. Nei giorni di festa, poi, il facchino bolognese non si distingue per nulla, nel modo di vestire, dagli altri cittadini. Ma sotto il grigio, uniforme intonaco imposto dal secolo, si conserva sempre vivo, nel facchino di Bologna, quell’antico spirito di fierezza per cui andò famoso nelle cronache del passato. Spirito che si rivela in una natura rozza ma sincera, piena d’impeti di generosità e non priva di senso civico e morale. Se il carattere dei nostri facchini è rimasto fino ad oggi inalterato, lo si deve soprattutto alla loro organizzazione di lavoro, che ha resistito alle bufere del tempo e degli eventi, nella sua forma tradizionale, un po’ esclusivistica, se vogliamo, ma squisitamente solidaristica.
E’ noto che anche oggi i facchini bolognesi sono divisi in «balle grosse» e in «balle piccole». Noi qui ci occuperemo solo delle «balle grosse»: le più caratteristiche, le uniche a vantare una tradizione antichissima, il nerbo dell’attività facchinesca cittadina. Esse sono otto: la balla di Castiglione, comprendente pure via S. Stefano: la balla di Mirasole, che comprende le vie D’Azeglio e Saragozza; la balla di San Felice, sotto la cui giurisdizione è pure la via Sant’Isaia; la balla della Sega dell’acqua, così detta perchè comprende le vie Lame e Galliera, ove sono molti mulini (questa balla è appunto per questo la più numerosa); la balla del Borgo, con le vie Mascarella e Zamboni: la balla di S. Vitale, comprendente anche la via Mazzini; la balla della Piazza e la balla della Stazione. Quest’ultima, di costituzione più recente, è divisa in due «sotto-balle»: una, detta «della Sacca», che provvede allo scarico dei generi di privativa dello Stato, l’altra, detta «dell’Ottava», che provvede allo scarico del carbone. In tal modo, tutta la città e la periferia è ripartita in «zone d’influenze». I facchini d’ogni balla si scaglionano nei punti più strategici del proprio rione e stazionano su panche recanti la dicitura della balla cui appartengono.

Per i privati, i facchini lavorano solo se sono chiamati. Hanno però il diritto di scarico per tutti i magazzini e le botteghe. Il loro maggior lavoro si svolge naturalmente nei giorni dei «San-Micheli» e delle «castellate» e nella stagione dello scarico della legna. Il lavoro continuativo più intenso è loro assicurato dai fornai, per lo scarico dei succhi di farina. Per antichissima consuetudine, hanno il diritto di procedere nello scarico quei facchini che per primi arrivano a porre le mani… sul campo di lavoro. In caso di trasloco, ad esempio, sarà sufficiente che uno d’essi prenda dal carro anche un semplice bastone da passeggio e lo deponga in terra, perché gli sia riconosciuto il diritto di svolgere tutto il lavoro di scarico. Questo esclusivismo viene, in ultima analisi, esercitato in danno dei facchini non appartenenti alla balla del rione, in quanto che tutti i componenti d’ogni balla rionale si radunano la sera all’osteria per dividersi in parti perfettamente eguali il guadagno della giornata: ripartizione a cui non sono esclusi i compagni assenti in caso di malattia o quelli che non hanno «bollato» affatto od hanno guadagnato poco.
E’ questa divisione del guadagno un’antichissima, simpatica e veramente efficace forma di solidarietà da «confraternita», che sopravvive ad onore della categoria dei facchini di Bologna. E, sempre a onore dei nostri facchini, sopravvive pure l’usanza, in caso di morte di un compagno, di quotarsi un tanto a testa per le spese dei funerali e per un immediato aiuto economico ai congiunti. Fra una «balla» e l’altra di facchini c’è tuttavia un senso di gelosia e di rivalità, antico, forse, quanto la costituzione delle balle stesse. E quando, ad esempio, un facchino, della Balla del Borgo la può fare in barba a un facchino della Sega dall’acqua, «bruciandogli», secondo il gergo facchinesco, il lavoro di scarico di una «castellata» o di un carro, può a buon diritto gloriarsene. Che tale rivalità sia antica lo si può desumere da una «notificazione» pubblicata nel 1851 del Commissario pontificio straordinario per le Quattro Legazioni e Pro-Legato di Bologna del Governo Pontificio, il quale comminava pene a quei facchini che impedissero ai compagni degli altri rioni di lavorare nella loro zona. Naturalmente, i «massari» dei facchini (cioè i «capi-balla» del tempo), fecero orecchie da mercante, allora come sempre, e tutto continuò a svolgersi secondo le consuetudini.

Ma è giunto il momento di fare un po’ di conoscenza personale coi facchini delle attuali balle grosse di Bologna. Prima di tutto, quanti sono? Non molti: una settantina in tutto. E ciascuno ha un soprannome. Ne volete sentire qualcuno? Galòpp, della Sega; Fasol e Scalétta, di Mirasole; Puntleina e El Nèigher, della Piazza; Birimbèn, del Borgo: Salomon della Stazione; Caganéla e Bómba, di Castiglione; El Schécc’, Magnastràzz e El Rosp, di San Vitale. Non sono certo tutti gentili, questi soprannomi, ma, in compenso, molti tra i facchini di Bologna hanno avuto ed hanno una grande innata gentilezza d’animo. Chi non ricorda, ad esempio, quel facchino scomparso da qualche tempo, detto Garofan, appunto perchè da mattina a sera, oziando o lavorando, teneva sempre fra le labbra un garofano? E guai a chi avesse voluto toglierglielo! Ma questa è una macchietta del passato. Fra le macchiette e i tipi più conosciuti e caratteristici dei facchini di oggi, ricordiamo ancora Pivòn, il «mulo» da fatica della balla di Castiglione, così detto nonostante corra sempre su e giù lungo il suo rione con una bicicletta scricchiolante sotto il peso del suo mastodontico corpo. Una volta un vigile lo dichiarò in contravvenzione. «Dove abitate?» gli chiese. Ed egli: «A stagh a Bulògna al nomer dù...». Alla balla di Castiglione appartengono pure Duardein èl matt, famoso giocatore di bocce, e Ginghein gran bevitore, e anzi, a quanto dicono i compagni maligni, «ubriaco stabile». Il facchino più caratteristico della balla del Borgo è invece Zivòlla, formidabile mangiatore, e non solo di cipolle, come farebbe supporre il suo soprannome.
Un tempo, proprio ai piedi delle Due Torri, attorno allo zoccolo della statua di San Petronio che vi sorgeva, «si riunivano i facchein (è il Testoni che c’informa) a cucinare allo spiedo i gatti presi durante la notte al laccio». Perchè il facchino mangiava, dormiva nella strada. Nel giorno di Sant’Antonio abate, ad esempio, i facchini vanno in gita sul colle di San Luca, ove consumano un pranzo formato di avanzi di maiale avuti in dono dai bottegai. Dai bottegai e da alcuni privati, i facchini ricevono pure in regalo, per vecchia consuetudine, i fiaschi del vino nuovo, nel giorno di San Martino, fiaschi che vengono regolarmente tracannati alla sera nei raduni delle singole balle.”

https://www.storiaememoriadibologna.it/i-facchini-di-bologna-2202-evento

In collaborazione con Biblioteca Sala Borsa – Cronologia di Bologna.

ALTRE INFORMAZIONI da siti diversi

….Altre cose fondamentali per un “uomo di fatica” erano la cinghia e la balla.
Se i carabinieri avevano la bandoliera, i facchini non si staccavano mai dalla loro cinghia. La portavano a tracolla in diagonale quando la tenevano a riposo, altrimenti la stringevano in vita, con due giri, per sostenere e proteggere la schiena durante gli sforzi. La utilizzavano per le casse o per le cose ingombranti, difficili da tenere in presa.

La balla, invece, era un termine destinato a molti usi. Che fosse carbone, farina o grano, la balla era il carico che, insieme al sacco, il facchino maneggiava. Balla veniva chiamato anche la tela del sacco o lo straccio col quale i “portatori di fardelli” si coprivano la testa ripiegandoli a cappuccio. Fu, pertanto, quasi naturale che la “balla dei facchini” diventasse, prima, il nome delle corporazione, poi il modello di autorganizzazione e di autodifesa di quei lavoratori. Non è un caso che le prime forme di mutuo soccorso presero piede tra i facchini. Il loro vincolo reciproco era assoluto: sia sul lavoro sia per la divisione dei guadagni della giornata oppure quando c’erano da trovare i soldi per una disgrazia o un funerale. Nella loro scala di valori la solidarietà aveva la stessa importanza della forza, ma si trattava di un sostegno a condizione: “Le malattie prodotte dagli eccessi di vino, dai vizi, dal malcostume dell’associato, conosciute come tali non danno diritto al soccorso”. In più, per chi mancava ai propri doveri nei confronti degli altri membri della balla, c’era una multa che andava a rimpinguare la “cassa dei tenaci”, una specie di forziere solidale che serviva ai facchini per tener botta.

Alle porte di Bologna esistevano i casotti del dazio: tutte le merci venivano fermate e controllate a questi punti di accesso. Erano i facchini delle varie balle che, insieme ai birocciai, si occupavano del carico, del trasporto e della consegna dei generi dopo il pagamento dei dazi. In quell’ambito erano molto importanti le operazioni di peso: ogni facchino, con la balla sulle spalle, andava sulla bascula e si pesava insieme al suo carico. Dal peso totale andava poi tolto il peso del facchino e ne usciva il peso netto del bene.

Questa organizzazione del lavoro richiedeva una forte presenza territoriale della categoria, ogni rione popolare aveva una sua balla, con regole di lavoro e di vita molto precise. Chi sforava queste regole, e i facchini, da bravi lazzaroni, molto spesso lo facevano, dava vita alle cosiddette “balotte”. Con una “elle” sola, perché questi gruppi operavano, per lo più, a Bologna e “balla”, tradotto in dialetto bolognese, diventava “bàla”, da cui derivò “balotta”. Stare in una balotta voleva dire essere molto spesso ai margini della legge e, qualche volta, pure contro. Significava, se necessario, trovare reddito extra mercato, fuori dalle “normali” funzioni lavorative, quasi sempre si trattava di conferimenti in natura. Oppure prendersi la libertà di svolgere compiti di pubblica utilità, come spegnere incendi, assistere gli appestati o fare gli acquaioli, ma, quando ci voleva, usare la cinghia per sferrare qualche salutare cinghiata e alzare il cappuccio della balla per non farsi riconoscere. Essere della balotta era un modo di vivere ed erano sempre i compagni del tuo gruppo che ti facevano scudo contro i soprusi della polizia austriaca o di quella pontificia o di quella reale.

L’ho tenuta lunga, lo so, ma vi ho voluto raccontare tutto questo per farvi capire le ragioni per le quali i facchini svolsero un ruolo così importante nelle rivolte bolognesi del sette e dell’ottocento. Per via del loro lavoro, erano in grado di bloccare i flussi vitali della città. Pur spaccandosi la schiena dalla fatica, non ci tenevano a scrollarsi di dosso il vestito dei reietti e dei cafoni, continuavano a stare nella parte più bassa e pezzente del popolo: “quella che non aveva denari e non si lavava le mani che il giorno del riposo festivo”. Si sentivano poveri, ma la loro identità era quella della “canaglia felice”. Un po’ spacconi, con il coraggio sempre appresso, erano convinti che si vivesse una volta sola e che ogni giorno passato a lamentarsi della loro condizione fosse un giorno sprecato. Per questo, ogni occasione di rivolta andava presa al volo. E, in quei momenti, balle e balotte ritornavano insieme.

Fonte:

https://www.zic.it/i-facchini-e-le-rivolte-una-storia-antica/ Dal libro “Ballate sediziose” un estratto sul ruolo svolto dai facchini nelle sommosse bolognesi del Settecento e dell’Ottocento.

Ai tempi della Balla Grossa. Le imprese criminali di un’associazione di malfattori nella Bologna postunitaria. Mostra in Biblioteca comunale dell’Archiginnasio 11 maggio – 10 settembre 2017

Un viaggio negli anni a cavallo tra la caduta del potere temporale del Papa e la nascita del nuovo stato nazionale, quando Bologna e il suo territorio furono caratterizzati da un aumento esponenziale di fatti criminosi.
Confidando nell’instabilità politica, nel vuoto di potere e nel clima di impunità quasi totale che si erano venuti a creare, i criminali diventarono sempre più audaci e violenti fino a organizzarsi in “balle” ovvero in gruppi, distinti a seconda dei vari rioni cittadini.
Questo, almeno, è quello che tenderà a dimostrare la pubblica accusa nel processo contro l’“Associazione di malfattori“, che si celebrerà nel 1864 e che dagli storici è considerato come il primo processo istruito nell’Italia da poco unita sotto i Savoia contro un’associazione malavitosa organizzata.

FOTO 1– Manifesto Ai tempi della Balla Grossa. Le imprese criminali di un’associazione di malfattori nella Bologna postunitaria. Mostra in Biblioteca comunale dell’Archiginnasio 11 maggio – 10 settembre 2017

FOTO 2–  disegno di A. Cervellati in mostra all’Archiginnasio di Bologna del 2017,da ALESSANDRO CERVELLATI, Facchini bolognesi, disegno a inchiostro su carta con ritocchi (15×18 cm). Collocazione: Fondo speciale Alessandro Cervellati, n. 57.35
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Un secolo fa (nel 1848) nello scontro dell’8 agosto alla Montagnola, i facchini di Bologna combatterono valorosamente, lasciando parecchi dei loro sul terreno; la loro popolarità si fece così viva presso la cittadinanza, che il dottor Giuseppe Muzzioli si volle fare interprete di questo sentimento, scrivendo una commedia in vernacolo, I facchéin ed Bulògna che ottenne uno strepitoso successo, eclissando il precedente repertorio dei drammoni a forti tinte. ……

Testo tratto da: ALESSANDRO CERVELLATI, Bologna al microscopio. Volume 1: Usi, costumi, tradizioni, Bologna, Edizioni Aldine, 1950, pagina 169. Collocazione: 17. V. VII. 57

http://badigit.comune.bologna.it/mostre/balla-grossa/index.html