Palazzo Fontana. Storia di un palazzo e dei suoi proprietari. Alberto Tampellini

** Testo tratto dal libro  Le dimore dei signori, Marefosca edizioni, 2004. Per gentile concessione dell‘autore, Alberto Tampellini, e dell’editore, Floriano Govoni, possiamo conoscere le storie dei proprietari, del palazzo e della tenuta.
– La
Villa o Palazzo Fontana,
nel territorio di
San Matteo della Decima,è uno dei complessi rustico-residenziali più interessanti delle nostre campagne, anche se praticamente sconosciuto e attualmente in avanzato stato di degrado architettonico e strutturale. Contrariamente a quanto credono molti abitanti della zona, il suo nome non deriva dalla famiglia Fontana bensì dalla presenza di una vera e propria fonte d’acqua che sgorgava nei pressi (1). La denominazione “Fontana” indica inoltre anche la vasta tenuta agricola circostante, che si è costituita nel corso di secoli a partire dalle prime acquisizioni di terreni compiute nella zona da Ercole, figlio di Galeazzo  Marescotti Calvi, nel 1486 (2). In un tempo non molto remoto tutta la zona decimina, nella fascia di terreno fino all’attuale via Biancolina, era interessata da alcune polle di acqua sorgiva, probabili resti di un antico corso del torrente Samoggia   sopravvissuto per via sotterranea
Ancora all’inizio del secolo scorso, infatti, diverse relazioni medico-scientifiche magnificavano le qualità curative
dell’acqua minerale” della Tassinara, contrada situata 2 km. a sud di Palazzo Fontana. Questa “acqua minerale“, che nelle intenzioni del tempo avrebbe dovuto essere  sfruttata a livello industriale, sarebbe stata dotata, stando alle relazioni dell’epoca, di particolari virtù nella cura delle affezioni gastriche e degli spasmi nervosi dell’apparato digerente, come testimoniato da una ricca casistica doviziosamente documentata (3). Qualche chilometro più a monte in contrada Poggio, sulla via Persicetana, il Santuario della B.V. delle Grazie fu eretto nel Quattrocento proprio a seguito di guarigioni “miracolose” operate da un dipinto della Vergine … e da una fonte di acqua medicamentosa.
Nulla sappiamo in realtà circa la localizzazione precisa di queste acque della Fontana, né sulle loro eventuali proprietà terapeutiche. Possiamo solo immaginare che la loro bontà e abbondanza, rendendole adatte sia per gli uomini che per il bestiame, valorizzassero notevolmente i terreni
circostanti. La presenza di acque salubri, in un’area a lungo paludosa, giustifica così l’attrattiva esercitata prima sull’Abbazia di Nonantola (cui era inizialmente sottoposta) e poi sulle facoltose famiglie bolognesi intenzionate ad investire in terreni le ricchezze accumulate con la politica e i
commerci. Nell’antica contrada di Liveratico (presso l’attuale via Levratica, in territorio decimino) si insediarono allora i Pepoli, i Marsili, i Sampieri, i Locatelli e i Marescotti.

Poche sono le dinastie nobiliari la cui  storia risulti così intimamente legata a quella dei loro più acerrimi nemici come fu per l’antica famiglia dei Marescotti. Le prime notizie di un Mariscottus, console del Comune, Mariscotto, figlio di Alberto, fu console nel 1235, mentre altri membri ebbero incarichi civili e militari fra il Tre e il Quattrocento, non solo a livello cittadino ma anche sotto le insegne imperiali.  Il personaggio più noto per tenacia, coraggio e caparbietà politica è però Galeazzo Marescotti (1406-1502). Inizialmente tra i più accesi sostenitori del partito bentivolesco (leggendaria divenne l’impresa della liberazione di Annibale Bentivoglio dalla Rocca di Varano, ov’era tenuto prigioniero), fu nominato Conestabile del Palazzo, poi Cavaliere e, infine, Senatore a vita per decreto pontificio nel 1466. La sua famiglia fu così tra le prime ad ottenere la dignità senatoria sotto papa Paolo II, conservandola fino all’estinzione del ramo primogenito nel 1690.
Nonostante il ruolo di primo piano rivestito nella repressione della congiura dei Canetoli, i Marescotti risalgono al 1179, confermando così l’importanza del casato nella vita pubblica bolognese fin dal XII secolo. Ancora un furono a loro volta oggetto di una dura persecuzione da parte del
Reggimento di Bologna, istigato dalle invidie bentivolesche.

Lo stesso Galeazzo “si vidde ammazzato i figliuoli, e nipoti da Ermesse Bentivogli”(4). Iniziava così una feroce faida tra le due famiglie che per molto tempo coinvolse Bologna in una strisciante guerra civile. Morto Galeazzo nel 1502 all’età di novantasei anni, dopo la caduta del discusso regime di Giovanni Bentivoglio (1506) scattò immediatamente la vendetta dei perseguitati. Fu infatti Ercole Marescotti, figlio di Galeazzo, ad istigare il popolo alla vandalica distruzione della Domus Magna in via S. Donato, cui rispose la fazione bentivolesca nel 1508 incendiando e saccheggiando per ritorsione la residenza dei Marescotti in via Barberia (5). Ne’ la guerriglia si limitò al territorio urbano: ancora nel 1519 una banda armata sotto il comando di Lodovico Marescotti saccheggiò a S. Giacomo del Martignone (sulla strada per S.Giovanni in Persiceto) la “Casa” di Paolo Zambeccari, del partito avverso (6). Cessate ufficialmente le ostilità , continuarono sul piano politico quelle lotte tra fazioni che non sempre il governo pontificio seppe controllare e mantenere nell’ambito della legalità . Ciò non impedì ai Marescotti di distinguersi ancora a lungo in qua-lità di uomini politici, magistrati, studiosi, letterati e uomini d’arme.  Vari furono i rami di questa famiglia assai prolifica: uno di questi (originato da Alfonso, figlio di Sforza Marescotti) si insediò a Roma e un altro in Francia, mentre il ramo primogenito ebbe termine nel 1690, col senatore Riniero, del quale fu erede la sorella Smeralda, moglie del senatore Ercole Aldrovandi.

I discendenti da tale connubio costituirono la famiglia degli Aldrovandi Marescotti, anch’essa accolta in Senato a partire dal 1780. Un altro ramo bolognese, continuato dai Calvi (originari di Faenza o della Val Lamone), “finì col conte Ercole del conte Luigi, ultimo dei Marescotti Calvi diBologna, morto nel 1824, la cui eredità passò nel conte Luigi di Filippo Marsili Duglioli …” (7).  Con la scomparsa del conte Carlo Cesare, nel 1892, la famiglia Marescotti si estinse definitivamente.

Complesse vicende di un’antica tenuta

Gran parte delle terre che costituiscono le attuali frazioni di Zenerigolo e di S.Matteo della Decima appartenevano fino agli inizi del XVI secolo
alla Comunità di S.Giovanni in Persiceto. Quando però il Comune, in cattive condizioni finanziarie e oberato di debiti, cominciò a vendere alcuni beni, anche le migliori terre di quelle zone – già da tempo bonificate e dissodate – di spettanza del Vescovo di Bologna, furono cedute a privati, di solito membri di ricche famiglie bolognesi. Gli appezzamenti così venduti presero poi (e mantengono tuttora) il nome di questi nuovi proprietari. Ci informa di ciò lo storico Giovanni Forni, menzionando un rogito, datato 10 maggio 1537, in cui si precisa che in quell’occasione furono cedute pezze di terra del “Gran territorio di Morefosca e Villa Gotica” (l’attuale territorio decimino), ed in particolare: 1041 biolche di terreno a Marcantonio Marsili (“La Marsiglia”), 368 biolche a Marcantonio Campeggi (“La Fontana”), 486 biolche a Camillo Morandi e a Galeazzo Bonasoni (“Il Morando”), 287,5 biolche a Filippo Aldrovandi (parte della tenuta “Giovannina”) e 314 biolche a Filippo Pepoli (“La Filippina”)8.

Ancor più interessante è il fatto che mentre in tutti gli altri casi gli appezzamenti prendono la denominazione dai loro acquirenti, nel caso della “Fontana” e della “Giovannina” ciò non avviene. Per quest’ultima infatti conosciamo l’origine del toponimo, risalente a Giovanni II Bentivoglio, cui la Comunità Persicetana aveva donato quei terreni come ricompensa per aver fatto effettuare a proprie spese le opere di bonifica e drenaggio dell’intera zona (1487). Per quanto riguarda “la Fontana“, invece, è evidente come il nome risulti anteriore non solo alla costruzione del Palazzo ma anche alla vendita della  tenuta stessa da parte della Comunità , spingendosi dunque fino a tempi assai remoti.

Difficile stabilire quale fosse inizialmente l’esatta estensione della tenuta; non è azzardato pensare che col trascorrere dei secoli questa abbia subìto variazioni di confine, ampliandosi sui terreni limitrofi secondo le complesse vicende della proprietà . Un documento (rogitoPellegretti-Rinieri) datato 21 maggio 1806 assegna alla tenuta un’area di oltre 723 ettari distinti in due corpi di terre, separati dal canale di Cento, il primo dei quali (a sud del canale) era costituito da 23 fondi di terre lavorative con casamenti rurali e il secondo (a nord) da terre prative e vallive (9).

Dove fossero collocate dunque le 368 biolche comprate nel 1537 da Marcantonio Campeggi (personaggio
di cui si perdono poi le tracce) rimane per ora un mistero. Anche perché assai prima di quella data, una serie di beni situati in località “La Fontana” risultano acquistati dal Senatore Ercole Marescotti, figlio di Galeazzo. La copia di un atto notarile datato 19 agosto 1486, infatti, ci informa come aquella data Ercole avesse acquistato da Nicolò Argelati una pezza di terra boschiva e “bedosta posta nel Comune di San Giovanni in Persiceto in loco detto la Fontana. Lo stesso atto testimonia di altri acquisti fondiari (in localitÃ
Livradigo”, “Grillone”, ecc.) con casamenti, tra cui casa con forno e una fonte (10).
A qualunque possedimento “Fontana” faccia riferimento la vendita del 1537 è dunque evidente che, giÃ
alla fine del XV secolo, le terre della tenuta “Fontana” erano saldamente in possesso dei Marescotti.

L’origine del palazzo

L’interesse di questa famiglia per le terre decimine si deve dunque allo stesso conte Ercole. Nel 1492 egli ricevette da tale Giacomo Zantelli (persicetano ma residente a Cento) il giuspatronato sulla Chiesa di S. Egidio di Liveratico, anche detta dei SS. Giacomo e Filippo di Liveratico (demolita poi nel 1569), finanziandone anzi il restauro in quanto per  maiorem partem derupta et prostrata e quindi inhabitabilis. I terreni su
cui sorgeva la chiesa, già della famiglia persicetana degli Albiroli, passarono così ad Ercole (11). 
Al Senatore Conte Ercole Marescotti,
nipote del precedente, già Cavaliere e marito della nobildonna Francesca Gozzadini, si deve invece un’intensa attività di migliorie
di questi terreni posti immediatamente a sud di San Matteo della Decima: l’escavazione della cosiddetta “Fossa Marescotti” (che consentiva lo scolo delle acque stagnanti) e la costruzione dei ponti in muratura (a quei tempi rarissimi) in località Sparadella e sui condotti Cavamento e Bergnana, onde permet tere il collegamento con i beni posti più a settentrione. “A metà del XVI secolo il Marescotti possedeva così una proprietà fondiaria topograficamente omogenea che si estendeva dall’attuale via Levratica alla via Pioppe e dalla via Samoggia Vecchia al Gallego” (12).

Ercole si impegnò ben presto ad ingrandire i possedimenti della famiglia nella zona: con atto del 12 febbraio 1560 ottenne in permuta dal senatore Enea Marsili due possessioni contigue “in loco detto la Marsiglia” (13) , mentre da una relazione tecnica sullo stato del canale di San
Giovanni (24 novembre 1573) abbiamo la menzione di fosse e “maceratori” del “Signore Cavag(lier)o Marescotto” proprio lungo lo sviluppo del canale nella zona ad est delle località Mora di Castelvecchio e Sparadella, indice evidente delle sistemazioni viarie e idriche da tempo avviate dal Marescotti su quei terreni (14). Inoltre, secondo lo studioso di cose decimine LiberoPoluzzi, “nelle terre migliori e più precisamente in quelle
terre oggi identificabili con la tenuta Fontana (…), per la prima volta nella storia di Decima, vi fu edificata una fornace, la quale servì poi a produrre il materiale edilizio necessario per costruire stalle e case coloniche; ebbero così origine quegli appoderamenti condotti a mezzadria, forma di conduzione agraria che permase poi su quelle terre, ininterrottamente, fino alla soglia dei recenti anni settanta
” (15). Sempre secondo il Poluzzi, questa fornace produsse anche il materiale usato per la costruzione del Palazzo padronale, il cui impianto originario (risalente dunque alla prima
metà del XVI secolo) è ancor oggi percepibile in un superstite torrione a pianta circolare, visibile sul lato sud-orientale dell’attuale edificio (16).

Una “Lista di lavori fatti alla Fontana del S.er Cavaliere (Ercole) Marescotto”fature fate nel palacio“. riporta, in data 26 gennaio 1594, una nutritissima e articolata elencazione di interventi strutturali che documentano, se non proprio il momento della costruzione, almeno una fase del completamento del manufatto, specificandosi talvolta trattarsi delle ” Si parla di “muralia di levante” e “di ponente” (forse muri perimetrali), “muralia di traverso la Cantina” o “di traverso le camare” (tramezzi interni ?) e “muralia sagramata da ogni banda” (su cui cioè veniva
successivamente steso l’intonaco da entrambi i lati); a questi fa seguito una serie di vari “pilastri” connessi con una “colonbaria“, oppure di fondazione (“pilastri delli fondamenti (…) inpiti di jara“, “pilastri de fondamenti sota a una muralia tra il palacio ala Fontana”).
Completano la descrizione delle opere murarie gli accenni ad una “scalla di preda” e ad una “cana di camino“. Abbiamo infine interventi di falegnameria e carpenteria che sembrano riguardare soprattutto la messa in opera dei “telarj ale finestre”, della “porta di legnamo” (il
portale d’ingresso ?) e di “uno ponto sopra ala fosa di legnamo” (probabile riferimento ad una fossa confinaria o di recinzione). La spesa complessiva dei lavori è minuziosamente calcolata in lire 620, scudi 6 e soldi 10, cifra con la quale non dovette certamente esaurirsi il completamento del palazzo, se altri interventi strutturali – pur di minore entità – risultano eseguitialla Fontana ancora nel 1620 (17).

Grillone e Grilloncello: la disputa con la comunità persicetana

Sotto il senatore Ciro Marescotti, personaggio di pochi scrupoli e sostenuto da potenti appoggi politici nel Governo bolognese, la tenuta Fontana fu al centro di accesi contrasti con il Comune di S.Giovanni in Persiceto. Il 18 giugno 1634 il popolo persicetano espresse vivamente il proprio
malcontento “contro la Comunità per la permuta che il Senatore Ciro Marescotti aveva già combinato col Comune della pezza Pascoletto con la pezza di Prato del monte; e per l’altra che stava trattando delle pezze Grillone, Grilloncello e Spinari in Decima di fronte alla Punta della Mora di Castelvecchio colle pezze Ferrarina e Larghe di Gallego”. La folla indirizzò insulti e ingiurie allo stesso Consiglio Comunale, radunatosi per l’estrazione dei pubblici uffici.
Racconta il Forni, basandosi su documenti originali, che “… il 20 Ottobre dell’anno stesso alla porta del Palazzo del Comune fu trovato, conficcatovi con un chiodo, un memoriale fatto in nome del povero Popolo e povertà del Comune, col quale si accusavano il Console e i Consiglieri, per le permute proposte dal Senatore Marescotti, di trascurare gl’interessi della Comunità ; cosicché nello stesso giorno il Consiglio deliberò d’insistere presso il Senatore affinché desistesse dalle sue proposte e per allora l’affare non ebbe seguito … (18).

Dieci anni durò tale tregua, al termine della quale il Marescotti “tornò alla carica per effettuare la permuta proposta fin dal 1634, poi  abbandonata”, suscitando di nuovo nella Comunità persicetana “quasi per legge fatale, discordie interne”. Questa volta la permuta fu stipulata effettivamente il 15 novembre 1644, “sollevando nel popolo profondo malcontento. Trentacinque popolani che più degli altri si lasciarono trasportare dall’ira a fare recriminazioni e proteste, accompagnate da ingiurie e minacce, furono carcerati e rimasero per tre mesi prigioni”….. Non di meno fu avanzato un memoriale al Cardinal Legato ed una protesta al Consiglio in nome del povero popolo e della povertà di San Giovanni contro il
Console, e pro Console, minacciando ruina e l’ira di Dio”.
La protesta fu accompagnata inoltre da alcune anonime “pasquinate” ove, in versi
popolareschi, si recriminava contro l’arroganza dei potenti coalizzati a danno dei poveri (“Comunità ! guarda che il tuo Grillone / e Grilloncello e appresso Lispinari /Tu non permuti con un buon patrone …” e ancora … la pezza chiamata il Pascoletto / fu permutata in dan del poveretto …”). “Ma
la potenza, per non dire la prepotenza, del Mariscotti – continua il Forni – superò ogni opposizione, tanto più che i prigioni ora si rivolgevano al Consiglio perché interponesse i suoi buoni uffici presso il Cardinal Legato al fine di ottenere la loro liberazione e tutto fu messo a tacere19. I nuovi beni, così “liberamente” acquisiti da Ciro Marescotti, furono anch’essi incamerati nella grande tenuta della Fontana, che ne risultò ulteriormente ampliata (20).

Dagli Aldrovandi-Marescotti ai duchi di Montpensier

Una pianta redatta dal perito agrimensore Alessandro Boati verso il 1678 ci mostra quale doveva essere l’aspetto della residenza padronale alla fine del XVII secolo. Un’ampia recinzione rettangolare (forse con fossato) a capo della provana che la collega alla via di Cento costituisce il nucleo centrale della tenuta, con il Palazzo vero e proprio (accennato solo a livello di area di ingombro) e il retrostante orto, ripartito geometricamente in quattro riquadri simmetrici. All’esterno della recinzione si intravedono una fornace sulla destra (probabilmente la stessa citata nei documenti) e – più in alto – laconserva, ancora intatta fino a non molti anni or sono e di cui si possono tuttora vedere i resti (21).  Senza lasciare discendenti diretti, l’11 aprile 1690 morì poi a Firenze, dove risiedeva da tempo, il senatore Riniero Marescotti, cedendo ogni bene (compresa la tenuta Fontana) alla sorella  Smeralda, andata in seguito sposa al conte Ercole Aldrovandi, che ne assunse il cognome. Nacque così il ramo degli Aldrovandi Marescotti, che ascese al grado senatorio a partire dal 1780 e mantenne il possesso della tenuta fino all’età napoleonica. Nella stima dei beni appartenenti al
defunto Riniero, eseguita dai periti Pellegrino Canali e Giovanni Giovagnoni nel 1694, la residenza padronale dell’ “Impresa Fontana” è descritta come
“…..Un Palazzo grande, con Brolo, horti, Cortile, habitazione e servizio dell’hortolano, stalla, teggia, pozzo, forno, et altre sue spettanze,
e attinenze….
.” (22).

Due anni dopo, il paragrafo 12 del libro concernente la Transazione Aldrovandi e Marescotti (20 settembre 1696) cita di nuovo “un Palazzo, con Brollo, Orto, e Cortile posto in detto Commune [Postumano] in loco detto alla Fontana“, aggiungendo che l’orto annesso al palazzo, della superficie di 8 biolche (su un totale di 1681 dell’intera tenuta) era valutato a 12.000 lire bolognesi (23). Sotto la gestione Aldrovandi furono apportate anche importanti modifiche al palazzo, con la costruzione del monumentale arco d’accesso alla corte e la risistemazione della parte residenziale. E nonostante la famiglia fin dal 1555/65 tenesse abitualmente villeggiatura estiva presso il “castello” della Giovannina (a pochi chilometri di distanza, sulla via per Cento), prima il conte Filippo Maria (1658-1748), poi il figlio Riniero (1694-1760) spesso non disdegnarono di alloggiare anche nel palazzo della Fontana. Riniero   anzi vi morì il 1 settembre del 1760, di “febbre acuta“, e fu poi sepolto a Bologna nella chiesa di Santa Maria.
Giovannina e Fontana costituivano a quel tempo due possedimenti in qualche modo complementari, con la preminenza del primo nella produzione vinicola e del secondo nella cerealicoltura e nell’orticoltura, come testimoniato dai numerosi libri contabili delle imprese, confrontabili soprattutto per il periodo 1737-1795 (25). Da questi risulta che la porzione migliore della tenuta Fontana era quella più antica, costituita dalle possessioni “Fiorentina Grande”, “San Filippo”, “Conserva”, “Paratore”, “Grillone”, “Turinese”, “Samoggia Vecchia”, “San Carlo”, “Bosco”, “Palazzo”, “Spinari”, “Ponte Pasqualino”, “Mora” e dai predii “Orto”, “Fraberia”, “Grilloncello” (poi San Vincenzo), “Boschetto”, “Trombina”, “Ortazzo”, “Sant’Andrea”, “La Punta” e “San Luigi” (26).

Benché i proventi di questa come delle altre imprese agricole degli Aldrovandi dovessero essere cospicui, tuttavia il tenore di vita di gran parte dei giovani rampolli del casato, abituati sempre di più alla vita costosa dellesale da gioco e dei teatri delle grandi città , portò ben presto ad una difficile situazione finanziaria. Verso la fine del XVIII secolo iniziò così la dissoluzione dell’ingente patrimonio fondiario di quella famiglia nel territorio persicetano. Morto nel 1780 il conte Gianfrancesco, gli eredi furono costretti a vendere la tenuta e il palazzo della Giovannina (da oltre due secoli proprietà Aldrovandi) al conte Carlo Caprara, con atto del 22 dicembre 1787. I beni superstiti furono amministrati dalla moglie, la modenese Lucrezia Fontanelli, fino al 1789, quando ne entrò in possesso il figlio primogenito Carlo Filippo, allora
ventiseienne. Poco incline alla cura patrimoniale, ed anzi decisamente orientato verso il mondo culturale allora attivo a Milano (ove pose infatti la propria residenza), egli pensò di far fronte alle continue pressioni dei debitori liberandosi anche della tenuta Fontana, venduta in effetti nel 1798 per 580.000 lire bolognesi al signor Giuseppe Zucchini, con il quale aveva contratto onerosi impegni finanziari (27).

La cosa gli attirò le ire del fratello Ulisse, che, escluso dal grosso dell’eredità , gli imputava la dissoluzione del residuo patrimonio familiare; Carlo dovette perciò discolparsi redigendo addirittura un Memoriale ove giustificava la perdita della Fontana con la necessità di liberarsi dai numerosi debiti, dalle pesanti tasse sui terreni (risultato della nuova politica napoleonica sulle proprietà fondiarie) e dalle “molte passività“, derivate evidentemente da una poco oculata gestione economica (28). Da questo momento altri proprietari si susseguirono via via in rapida
successione: i fratelli Felice e Gioacchino Pasi (giugno  1804), il marchese Luigi Grimaldi di Genova (21 maggio 1806), il marchese Raffaele De Ferrari di Genova (31 luglio 1833).

Alla morte di questi, nel 1877, “la vedova De Ferrari, Maria Brignole Sale donò tutti i beni posseduti dal marito nel Bolognese alla famiglia d’Orlèans” (29), che ne fece un enorme latifondo, limitandosi a percepire le rendite derivate dagli affitti delle varie tenute. Il Palazzo della Fontana fu ridotto prima a sede amministrativa dell’azienda, poi a magazzino di granaglie e infine – frazionatosi nel 1919 il latifondo degli Orleans-Montpensier – addirittura a deposito di stoccaggio vinicolo sotto le successive proprietà Gino Lisi, conte Omer Talon (dicembre 1926) e Costanza Bonora (1932). In seguito la tenuta fu divisa e acquistata da diverse Società per Azioni (30).

La struttura del palazzo

L’aspetto attuale dell’antica residenza, che fu già dei Marescotti e poi degli Aldrovandi, denuncia una lunga storia di ristrutturazioni, ampliamenti e abbandoni. Procedendo dalla via Levratica, un lungo viale alberato di pioppi cipressini conduce al monumentale ingresso ad arco sormontato da una torre e da qui alla corte
centrale, attorno a cui si dispongono alcuni edifici che formano il complesso. Oltre al palazzo vero e proprio, sono presenti infatti due costruzioni accessorie (risalenti alla fine del secolo scorso)adibite a magazzini agricoli e una piccola cappella gentilizia dedicata a San Bartolomeo. Un altro lunghissimo viale di
platani, ortogonale al primo, assicura, partendo dal fianco della residenza, il collegamento con la strada per Cento.
Il palazzo, contrariamente a quanto farebbero supporre le linee architettoniche molto sobrie e severe e la semplice pianta rettangolare, cela una struttura composita, risultato di molteplici alterazioni e rifacimenti. Il nucleo più antico sembra quello a sud-ovest, con il portale d’accesso in posizione centrale e la classica articolazione tripartita: piano terra, piano nobile e sottotetto; mentre tutto il lato est sembra
frutto di una successiva ristrutturazione (rimasta peraltro incompiuta, come testimoniano i lacerti di muro ancora “a sega”). Nell’angolo formato dai muri perimetrali orientale e settentrionale si trova infine un massiccio torrione circolare, con basamento a scarpa delineato da un pesante cordolo in cotto, feritoie e un accenno di caditoie nella parte superiore (probabilmente  abbassata rispetto alla sua primitiva altezza). Si tratta senza dubbio dell’elemento architettonico più interessante dell’intero complesso coi suoi richiami a moduli cinquecenteschi; da tempo
adibito a colombaia (citata infatti in vari documenti), la sua funzione originaria sembra però essere stata prettamente difensiva.

Torri angolari a base rotonda sono note nei palazzi cinquecenteschi delle “Quattro Torri” a Sant’Agostino (FE) e di Foggianova presso Marano di
Castenaso
(distrutto nel’700), nelle fortificazioni tardo-quattrocentesche delle rocche di Imola e di Forlì e nell’antico castello – ora scomparso – di Ceretolo (sulla strada da Bologna a Bazzano), mentre due torrioni assai simili al nostro, incorporati nelle mura di Villa Ranuzzi Segni (o “del
lauro”
) a Casalecchio di Reno (BO), denotano anche in quel caso resti di più antiche costruzioni inglobate poi nell’edificio attuale (31).

Tornando al Palazzo Fontana è da segnalare inoltre, a metà circa del muro perimetrale nord-ovest, l’inserimento di un’alta torre campanaria quadrangolare, da riferirsi forse ad una cappella interna (ricordata e tramandata anche da fonti orali) poi soppressa. Anche l’articolazione degli spazi interni risulta di complessa lettura. Al piano terra, in corrispondenza del portone d’ingresso, un’ampia loggia passante attraversa tutto
l’edificio in direzione nord-sud, dividendolo in due ali. Quella di sinistra si sviluppa attorno ad un cortiletto rettangolare circondato su tre lati da un porticato di rozzi pilastri e al cui centro spicca l’apertura di un pozzo-cisterna. Nel compatto settore a destra della
loggia è ricavato un analogo cortile, con un pozzo situato ad uno degli angoli ed accesso all’esterno sul lato sud-est.

Al piano terreno si trovano le cantine, con soffitti a volta, ed altri ambienti di servizio assai dissestati. All’interno di uno di questi è ancora riconoscibile unforno da pane. In un altro di questi ambienti minori, attiguo all’oratorio, è stata rinvenuta, tra macerie e detriti, un’elegante
vasca da fonte decorata con motivi scultorei classicheggianti a triglifi e metope, forse da mettere in relazione con la “Fontana”
da cui prendono il nome tenuta e palazzo.

Al piano nobile, in corrispondenza di quella sottostante, si trova la loggia passante superiore, con soffitto ligneo a cassettoni decorato da riquadri dipinti a false tessere marmoree. A sinistra alcuni piccoli ambienti sono disposti in sequenza lungo il perimetro del cortile interno; a destra si apre invece un grande salone di rappresentanza ai lati del quale vi sono altre stanze minori. Addossato alla parete est del salone, tra due
alte finestre, campeggia un imponente camino settecentesco in arenaria (ora ricoperto da una mano di scialbo biancastro) con elementi decorativi ad ovuli sull’architrave e due pilastri portanti ad ampie volute dalle terminazioni zoomorfe. Tanto il soffitto ligneo di questo salone quanto quelli delle stanze adiacenti mostrano tracce di decorazioni pittoriche, ormai quasi completamente scomparse. E’ ragionevole ritenere che quest’ala del palazzo fosse riservata a residenza signorile, mentre l’ala contrapposta fosse destinata alla
servitù.

 

Gli arredi del palazzo e l’oratorio di S. Bartolomeo

L’articolazione degli ambienti sembra rispecchiare quella ricavabile da un documento del 15 febbraio 1702, conservato presso l’Archivio di Stato di Bologna e pubblicato alcuni anni fa (32), con il quale gli Aldrovandi consegnavano tenuta e palazzo al nuovo fattore. E’ una sorta di inventario degli arredi presenti nella dimora a quella data: tavoli, seggiole rivestite in pelle, poltrone, credenze, cassapanche e vari banconi con lo stemma di famiglia, stoviglie e strumenti delle cucine (tra cui servizi da tavola in coccio e in peltro, e il pentolame da fuoco in rame), strumenti della lavanderia, delle cantine (comprendenti 40 botti e una ventina di tini) e delle scuderie. E ancora, gli arredi negli appartamenti e nelle stanze da letto al piano superiore.

Se ne ricava l’impressione di un livello di vita piuttosto buono, ben calibrato ma senza eccessive
concessioni al lusso superfluo. Pochi anche gli oggetti d’arte: alcune immagini di santi (S. Maria Maddalena, S. Domenico, S. Antonio Abate, S. Giuseppe e S. Francesco di Paola, S. Petronio, ecc.), una veduta della tenuta Fontana e 6 quadri raffiguranti paesaggi e scene boscherecce. Da questi si distacca solamente un ritratto (purtroppo non più rintracciabile) assegnato dal redattore del documento a Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino (1591-1666). Si tratta di “un’opera ricordata anche dal Malvasia il quale precisa [che] fu realizzata quando l’artista venne invitato a Bologna da Filippo Aldrovandi (1642) per motivi di sicurezza, essendo Cento minacciata da truppe militari, e in quella circostanza il maestro ritrasse il figlioletto del conte di appena tre anni” (33).

Significativa invece la presenza, ancora agli inizi del XVIII secolo, di un cospicuo arsenale bellico in dotazione alla villa, seppure in evidente stato di disarmo; oltre a diversi “rastrelli da Arme” (cioè armi bianche) e “rastrelli di Moschettieri”, vengono infatti ricordate: “Dodici Arme ad Asta antiche”, “Sette lancie da giostra” (!), “Sette pasetti da tirare a scherma”, “diciassette canne da Spingarde”, “Sei spingarde sopra Cavalletti”, “Sessanta moschetti” (che si precisa però essere “la maggior parte sforniti”), “una Paniera con Cargadori da Moschetti”, “Sette Schioppi curti da Acciarino” e “uno sc(h)ioppo da caccia” (34). Chiudono l’elenco delle curiosità “una scatola con le Pedine tornite per li Sbaraglini e gioco da Scacco” (lo Sbaraglino è un gioco da tavolo simile all’odierno backgammon), e “una Grata in ferro in tondo che copriva la Fontana” (35); l’antica risorgiva che aveva dato il nome alla tenuta doveva dunque essere attiva ancora agli inizi del Settecento.

Adiacente all’angolo nord-ovest del palazzo si trova un oratorio con campanile a vela, dedicato a San
Bartolomeo
e databile (nel suo aspetto attuale) all’inizio del XVIII secolo, quando fu fatto costruire dal Conte Filippo Maria Aldrovandi sul luogo di uno più antico ormai diruto e recante la stessa intitolazione (36). Rimasto praticamente intatto fino al 1990, ha purtroppo subito nell’estate di quell’anno l’azione di vandali
che, oltre a forzare il portale d’ingresso e demolire la predella dell’altare, hanno asportato la pala dipinta (con la raffigurazione di Gesù Crocifisso, S. Bartolomeo, S. Francesco e S. Maria Maddalena) e danneggiato gravemente una lapide marmorea murata su una delle pareti, con l’evidente speranza di rinvenire improbabili “tesori” nascosti. Il pavimento coperto di calcinacci, gli intonaci cadenti, i soffitti (ancora ad “arelle”) della sagrestia già crollati lasciano poche speranze circa il futuro del piccolo sacello. Non meno disastrose sono d’altronde le condizioni dall’edificio residenziale, di fatto ormai abbandonato da anni; travi
del soffitto marcite, pavimenti collassati, muri interni pericolanti. Tanto che nell’estate del 1993 l’attuale proprietà ha provveduto a far murare tutti gli accessi all’edificio, valutando ormai imminente il rischio di ben altri crolli. Anche la plurisecolare “conserva” (o ghiacciaia), situata poche centinaia di metri a nord del palazzo e già inserita nell’elenco dei beni culturali della Provincia di Bologna per le dimensioni e il suo perfetto stato di conservazione (37), è stata purtroppo rasa al suolo
nella primavera del 1989. Sembrano così destinati a scomparire tra l’indifferenza generale, anno dopo anno, in una sorta di infinito calvario, i resti di una delle ville-palazzo più antiche dell’intera area persicetana (38).

I Gandolfi a San Matteo della Decima

Ancor oggi una targa a suo tempo fatta collocare sulla facciata del palazzo da Costanza Bonora (succeduta nella proprietà ai conti Talon) commemora la nascita a Palazzo Fontana dei Fratelli Gandolfi, famosi pittori bolognesi del XVIII secolo. Ubaldo (1728-1781) e Gaetano
Gandolfi (1734-1802),
come risulta dagli atti battesimali della Parrocchia di S. Giacomo di Lorenzatico, e com’è riportato
nelle numerose biografie, nacquero in una villa detta “La Fontana”, ove il padre Giuseppe Antonio Gandolfi, stando allo studioso A. Zanotti (1833) era “agente dei Conti Ranuzzi“. Sennonché, come si evince dalla storia del palazzo e della tenuta, mai i conti Ranuzzi (che pure ebbero vasti
possedimenti a Zenerigolo e a Lorenzatico) figurano essere stati tra i suoi proprietari. L’equivoco tra gli studiosi, durato oltre un secolo, sorse semplicemente per una svista dello Zanotti; molti anni prima si espresse infatti giustamente D. M. Galeati quando in un suo Diario, posteriore al 1787, scrisse (a proposito di Ubaldo) “suo Padre era colà Fattore degl’Aldrovandi, poi di casa Tanara“. Aldrovandi dunque, e non Ranuzzi, riconfermando con ciò Palazzo Fontana quale casa natale dei nostri pittori e lasciando a S. Matteo della Decima l’onore di esserne stata la patria d’origine.

NB le foto a colori sono di Floriano Govoni .
Corsivo e grassetto sono  stati aggiunti dalla redazione per favorire la leggibilità sul sito

Note 

1) POLUZZI 2000, pp. 94 e 95.

2) POLUZZI 2000, p. 93.

3) GNUDI 1824; MURATORI XIX sec.

4) DOLFI 1670, p. 526.

5) ROVERSI 1974, p. 3

6) DOLFI 1670, p. 528.

7) GUIDICINI, 1868, p. 100.

8) FORNI 1921, p. 319.

9) MAZZAFERRO 1993, p. 73.

10) POLUZZI 1998, pp. 8-9.

11) MACCAFERRI 1903, p. 21; FORNI 1927, p. 254; POLUZZI 2000, p. 98.

12) POLUZZI 1989, pp. 8-9.

13) ASB, Fondo Marsili, Istr.b.230.

14) ASB, Ass. di Gov., tomo III,1554-1764.

15) POLUZZI 1989, pp. 8-9.

16) Cfr. Poluzzi 2000, pp. 92 – 93.

17) ASB, Fondo Marsili, Carte dell’ Amministrazione, b. 824.

18) FORNI 1921. p. 361.

19) FORNI 1921. pp. 365-366.

20) ARIOTI-ZANARINI 1990, p. 86.

21) BOATI, vol. 5, p. 366.

22) ASB, Fondo Aldrovandi, Libri di Conti e Carte di Amministrazione, b.568.

23) ASB, Fondo Aldrovandi, Atti diversi, b. 361.

24) GUIDICINI 1869, p. 180.

25) ASB, Fondo Aldrovandi, Libro Soci Impresa Fontana, m.568; Libro Conti relativo ai beni della Fontana, m. 580; Conti dell’Impresa Fontana in 18 fa-scicoli rilegati vol. 596; Note di consegna e conti relativi ai “granari della Fontana”… b. 598; Affari sopra li beni della Fontana, b. 8 15-19.

26) MAZZAFERRO 1993, p. 89.

27) MAZZAFERRO 1993, p. 88.

28) ASB, Fondo Aldrovandi, b. 405, Memoriale

29) MAZZAFERRO 1993, p. 77.

30) MAZZAFERRO 1993, p.90; POLUZZI
2000, pp. 86 e 115 – 117.

31) LIPPARINI 1953, pp.11, 15, 96-97.

32) ARIULI 1997.

33) ARIULI 1997, p. 16.

34) ARIULI 1997, pp. 18-28.

35) ARIULI 1997, p. 24.

36) POLUZZI 2000, p. 93.

37) Carta generale 1977, p. 24.

38) Va segnalato anche il grave incendio che il 3 febbraio 2004 ha colpito il palazzo compromettendone ulteriormente il già precario stato di
conservazione. Vd. COCCHI 2004, pp. 23 – 25.

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