Alimentazione padana nei secoli dal XV al XVII. Appunti di storia tra ricchi e poveri

L’ALIMENTAZIONE PADANA NEL QUATTROCENTO E NEL CINQUECENTO
Testo di Giulio Reggiani
Questa mia piccola ricerca sui cibi di “fine Medio Evo e inizio Rinascimento” vuole dare un quadro, seppur sintetico, di come e cosa si mangiava in un periodo storico di notevoli cambiamenti, sia politici che economici. Dopo lo –chiamiamolo così- splendore economico di “fine Duecento e inizio Trecento”, che vide una consistente espansione dell’economia agricola legata alla cosiddetta Civiltà Comunale come pure un grande sviluppo dei commerci anche fuori dall’Italia, si assistette ad un notevole regresso legato alla sciagurata Peste Nera, detta anche Morte Nera proprio per l’elevatissimo numero di deceduti a causa di quella pestilenza. Il morbo s’affacciò in Europa proveniente dall’Asia verso la metà del Trecento, in Italia esattamente nel 1347, pare a Messina, ma certamente in talune città marittime legate ai commerci con l’Oriente; si sviluppò poi con grandissima virulenza nel biennio successivo, andando a scomparire progressivamente alla fine degli anni Cinquanta del XIV secolo, lasciando però un vuoto demografico notevolissimo (alcune fonti parlano addirittura di un calo della popolazione di oltre il 50%) che si ripercosse inevitabilmente su tutte le attività economiche e in particolare sulla produzione agricola.

Nella seconda metà del secolo, come si può ben intuire, la forza-lavoro nelle campagne scarseggiava e di conseguenza diminuì sia il numero dei prodotti che la loro quantità globale. Ma, per assurdo, la quantità di terre a disposizione dell’agricoltura fu fortemente sproporzionata in rapporto alle braccia che dovevano coltivarla: ecco allora che ciò rappresentò un forte incentivo a nuove assegnazioni di terreni da coltivare da parte dei grandi proprietari –nobili o borghesi- verso contadini e nuovi piccoli coltivatori. Tale fenomeno ebbe il suo epicentro soprattutto nella pianura padana e nei pianori di Toscana-Marche-Lazio, mentre fu abbastanza limitato nell’Italia meridionale.

Dovettero comunque passare numerosissimi anni, diciamo verso la metà del Quattrocento, per avere una consistente ripresa, equivalente al periodo pre-peste; così arrivarono non soltanto i grandi banchetti delle Corti italiane, straricchi di “ogni ben di Dio”, ma pure una tavola dei poveri sufficientemente copiosa di prodotti alimentari. Il desco contadino, pur se molto più umile rispetto a quello dei ricchi cittadini o dei nobili, conobbe dalla seconda metà del Quattrocento una certa abbondanza e varietà di derrate, impensabile all’inizio del XV secolo. Oltre ai prodotti tipici dei campi, arrivarono pure i numerosi derivati del latte ed anche parte della carne degli accresciuti allevamenti, non soltanto di quelli domestici.

Per prima cosa bisogna ricordare che a quel tempo non c’era il pomodoro e quindi si utilizzavano molto le erbe (anche quelle officinali, che spesso si usavano pure in cucina), i cereali, i legumi. Inoltre c’era una sostanziale differenza fra la tavola dei ricchi (che avevano abbondanza di carne) e quella dei contadini delle campagne; per quelli ancor più poveri – in campagna o in città non cambiava molto – esisteva unicamente la miseria … e soltanto l’aiuto dei frati conventuali e dei religiosi in genere. Dai pranzi, che si vedranno elencati di seguito, si potrà ricavarne una serie di prodotti utilizzati nei cibi principali di quel periodo. Si deve anche tener conto che lo zucchero di cui si parla era quello grezzo (scuro) di canna, costoso perché veniva importato dall’Oriente; molto più spesso, per dolcificare, veniva utilizzato il miele, che era un po’ più a buon mercato (come si sarà intuito, in epoca romana si dolcificava soltanto con il miele o, meno efficacemente, con il vino).

Dapprima darò un quadro sintetico di alimenti e portate.

I primi
Il primo piatto tipico del Medioevo e del Rinascimento era il brodo, preparato facendo bollire una miscela di carni, verdure e spezie in acqua. La carne veniva tolta dal brodo e mangiata separatamente con vari tipi di erbe cotte. Questo modo di cucinare è rimasto ancor oggi nella preparazione del “ragù napoletano” che, a differenza di quello “bolognese”, non prevede carne trita bensì pezzi consistenti, che poi vengono tolti e mangiati successivamente (ricordo che nel ragù moderno c’è la salsa di pomodoro, che a quei tempi non esisteva).

I primi piatti come il semolino, i vermicelli e i maccheroni furono introdotti alla fine del Quattrocento, dopo la spedizione militare del re di Francia Carlo VIII in Italia. Non erano certamente conditi con la salsa di pomodoro (che al giorno d’oggi è molto comune) perché, come ho detto prima, nel XV secolo non c’era il pomodoro: questo, infatti, venne introdotto solo nel XVI secolo, portato in Europa -dal “Nuovo Mondo”- dagli esploratori spagnoli. Invece si usavano sempre salse a base di olio d’oliva, burro –o strutto- e panna. Devo aggiungere che, di frequente, la cucina dei Conventi era all’avanguardia anche nella produzione e nell’elaborazione di nuovi prodotti agricoli e di nuove “ricette culinarie”, anche se generalmente molto semplici.

I secondi
Per quanto riguarda i secondi, gli alimenti maggiormente consumati erano quelli a base di carne. Questo perché una delle attrattive principali di quel periodo storico era la caccia, che produceva una gran quantità di cibo. Gli arrosti ebbero un posto importante nella cucina rinascimentale ma venivano in genere preparati in un modo leggermente diverso da quello di oggi. Per esempio il manzo, e più in generale tutta la carne, era sempre bollito. Ciò veniva fatto per evitare la contaminazione dei batteri, vista l’impossibilità della gente di conservare la carne in maniera corretta.

Condimenti principali dell’arrosto erano il succo d’arancia e l’acqua di rose, che venivano versati sopra l’arrosto, il quale, successivamente, veniva completamente cosparso di spezie e zucchero. La selvaggina di grandi dimensioni, come i cigni e i pavoni, erano serviti arrostiti durante le feste, i matrimoni o svariate altre celebrazioni. I contorni, che rappresentavano una grande aggiunta ai ricchi pasti del Rinascimento, comprendevano una vasta gamma di dolci che avevano questi ingredienti: mele, mele cotogne, castagne e tanti altri frutti.

I dessert
Un capitolo a parte meritano i dessert. Durante il periodo pre-rinascimentale non esistevano dei veri e propri dolci serviti dopo il pasto principale; in loro sostituzione venivano consumate delle minestre oppure delle zuppe altamente elaborate. Queste “portate” erano ben realizzate ed anche preparate in diversi colori, per essere visivamente attraenti. Per dolcificarle, solitamente venivano condite con zucchero, zafferano, semi di melograno ed erbe aromatiche. Così sviluppate, erano considerate un lusso e quindi servite come dessert.

L’ALIMENTAZIONE NEI SECOLI XV E XVI

I cibi dei ricchi
Cominciamo dal Rinascimento, dove il mangiar bene divenne una vera e propria arte. I ricchi non badavano a spese e, pur di ostentare il loro lusso, offrivano agli invitati le vivande più ricercate con ingredienti costosi, come spezie orientali (ad esempio, la noce moscata costava quanto cinque o sei manzi) e zucchero (scuro, perché zucchero di canna, che arrivava a Venezia avvolto in foglie di palma); a volte veniva usato anche per costruire elaborate statue che dovevano stupire i commensali, come in occasione del matrimonio di Maria de’ Medici con il re di Francia Enrico IV.

In quest’epoca nacque il galateo, cioè l’insieme delle regole di comportamento. L’occasione in cui esso veniva rigorosamente rispettato era il banchetto, dove il principe mostrava tutta la sua ricchezza. Egli occupava un posto dominante rispetto agli altri: si poneva al centro se la tavola era a ferro di cavallo, a capo-tavola se era rettangolare. Le posaterie erano elegantissime e le tovaglie candide. Il banchetto veniva interrotto frequentemente da danze, concerti o brevi rappresentazioni, nelle quali si esibivano anche i familiari del Signore padrone di casa.

Ma il banchetto più famoso fu quello di Agostino Farnese, offerto il giorno di Sant’Agostino (28 agosto) del 1519 nel grande salone della villa, a cui furono invitati, oltre ai personaggi più in vista della città, perfino dodici cardinali e Papa Leone X. Anche in questa occasione, il Farnese mostrò la sua magnificenza: a tutti i commensali furono offerti, come cibo prelibato, uccelli rari e pesci provenienti dai loro paesi, collocati in piatti d’argento decorati con i fregi dei rispettivi stemmi nobiliari.

Ma che cosa si mangiava in tali occasioni? Il pasto consisteva in oltre 20 portate (antipasti, primi piatti, carne, pesce, etc.) ciascuna delle quali composta da numerose vivande. Questo spiega perché un banchetto poteva durare anche l’intera giornata e perché venissero collocate, in ciascun posto occupato dai commensali, tre tovaglie una sull’altra, cosicché quando una si sporcava la si poteva sostituire. Ce lo racconta il friulano Eustachio Celebrino (Udine, 1490 – forse Venezia, 1535) nella sua “Opera nova che insegna apparechiar una mensa”. Ormai la tovaglia era entrata nella vita quotidiana delle classi più agiate. Bartolomeo Sacchi (Piàdena-CR, 1421 – Roma, 1481) detto il Plàtina, letterato e umanista, sconsigliava di utilizzarle colorate perché potevano infastidire i commensali. Nei banchetti di questo periodo furono di moda le “perugine”, tovaglie con vistose fasce blu laterali, presenti tradizionalmente nei corredi nuziali e nelle liturgie, che furono arricchite nel ‘500 da ricami ed ornamenti.

In questo periodo si usavano già i tovaglioli e per ripiegarli esisteva una vera e propria arte: infatti era considerato sconveniente pulirsi sul vestito o sulla tovaglia, quindi si utilizzavano piccole stoffe quadrate. Infatti ogni invitato trovava al proprio posto (o posta, da cui deriva il termine posata), un tovagliolo ripiegato che ricopriva le seguenti cose: le posate (anche se molti banchettanti si portavano da casa coltello e cucchiaio), una pagnotta e i dolcetti da inzuppare (come si direbbe oggi) nell’ “aperitivo iniziale”. Da questa usanza derivò il termine “coperto”, che si diffuse in Francia dal secolo XVI in poi. Quando si scoprivano il pane e i dolcetti, il tovagliolo veniva parzialmente aperto, poi deposto accanto al piatto oppure appoggiato sulla spalla -o addirittura su ambedue le spalle, come una stola-. Dalle testimonianze iconografiche del tempo, i tovaglioli erano in genere ripiegati in forma più o meno quadrata.

I piatti, poi, erano prodotti nei materiali più vari: si andava dal vetro al legno, dal coccio al cristallo, fino alla comune terracotta; i più ricchi esibivano anche piatti d’oro o d’argento, incastonati di pietre preziose. Questi, per tutto il Cinquecento, non furono solo oggetti funzionali alle finalità decorative ma pure usati come mera esibizione di ricchezza. Però con l’affermarsi dell’etichetta, nacque un nuovo concetto riguardante il rispetto fra commensali: da quel momento anche il piatto diventò un oggetto individuale e personale.

Nel Cinquecento, la posata assunse una funzione nuova, che sancì la fine dell’usanza di afferrare il cibo con le mani. Accanto al coltello (senza punta, che non serviva più per infilzare il cibo) e al cucchiaio, apparve in tavola anche la forchetta, fino allora relegata in cucina. Il nome è il diminutivo di forca, indicando un oggetto formato da un manico più due o più rebbi; tale posata la si trovava non solo sulle mense dei nobili ma anche dei borghesi. Questa forchetta, qui evidenziata, aveva due soli rebbi (con un gambo esile) e veniva usata soprattutto per portare alla bocca i cibi caldi: era questo il caso dei maccheroni, che non si potevano prendere con le dita. Dalle corti italiane la forchetta si diffuse lentamente in Europa, ma fino a tutto il Seicento gli aristocratici mostrarono riluttanza nell’abbandonare l’uso delle dita: lo testimoniano le tradizioni della corte di Luigi XIV.

Vediamo ora come si svolgeva un banchetto di “fine ‘400 e inizi ‘500”: un pranzo veramente da “Corte signorile”! Dapprima i convitati si lavavano le mani con acqua di rose in bacili solitamente argentei, poi venivano portati in tavola pane di latte, ciambelle, biscotti, marzapani, pinocchiate, insalata, cannelloni alla crema, sfogliate, acciughe, capperi, asparagi, gamberi, latte di storione allo zucchero e vini. Agrumi e frutti erano considerati elementi aromatizzanti basilari. Fra i primi piatti erano frequenti i maccheroni (che non erano quelli odierni, ma una specie di gnocchi, fatti con farina e pan- grattato), poi lasagne e tagliolini, ma anche cose semplici come, ad esempio, le minestre di riso.

Un condimento tipico per i maccheroni –che in precedenza venivano cotti in brodo- era questo: “butirro, cannella, zuccaro et formaggio”. Maccheroni e vermicelli erano anche conditi con uvette, oppure con burro e sale; sulle primitive paste ripiene (si potrebbero chiamare “antenate dei tortellini”) si utilizzava lo “sciroppo di zucchero, un cucchiaino di cannella, del ripieno di noci e pistacchi tritati”.

Ma già Cristoforo Messisbugo (Ferrara, fine ‘400 – Ferrara, 1548) celebre siniscalco ed anche insigne cuoco della Corte Estense di Ferrara, utilizzava “sopra maccheroni”, “una salsa a base di aglio, pane raffermo, brodo, noci e mandorle tritate” (oggi si direbbe, in poche parole, “l’agliata”).

Fra i secondi piatti, oltre a frittate, lumache, funghi, carni e pesci vari, possiamo trovare “una bona torta fatta di figadetti di polli”. In questo periodo, infatti, si sviluppò una vera e propria passione per le frattaglie e le interiora degli animali da macello, dei volatili e dei pesci. Vi fu, inoltre, una grande varietà di umidi e guazzetti, oltre ad un ampio utilizzo del latte e dei suoi derivati: così il burro acquistò un’importanza pari allo strutto. Fu molto apprezzata la panna e vennero pure introdotti numerosi nuovi formaggi di ogni tipo.

Le carni erano costituite da pollame, carni di vitello e di suino, oltre a capretti e castrati ovini. Gli arrosti, venivano prima bolliti in acqua per ammorbidirli, in quanto si utilizzavano animali vecchi e non più abili al lavoro (però si cominciarono anche ad allevare buoi appositamente per la tavola); gli arrosti di maiale erano spesso arricchiti dalla zucca per averli in agro-dolce, abbinandoli inoltre ai funghi porcini e alle pere selvatiche (c’era il convincimento che le pere selvatiche fossero un antidoto per l’eventuale avvelenamento da funghi).

Particolarmente apprezzate erano le teste di vitello, manzo e capretto, delle quali si utilizzava proprio tutto: lingua, muso, cervello, guance, orecchie, palato e perfino gli occhi; stessa cosa per le teste dei pesci più grossi, che erano apprezzate al punto da costituire regali di prestigio.

Dalla seconda metà del Cinquecento si cominciò ad allevare il tacchino importato dalle Americhe, il quale in breve tempo sostituì sulle tavole della nobiltà tutti quei volatili che dominavano invece durante il Medioevo: ad esempio gli aironi, i pavoni, i cigni, le gru; il tacchino venne considerato un gran regalo di matrimonio. Nei grandi banchetti delle Corti italiane, andò di gran moda il presentare la selvaggina dentro dei “trofei” di pasta sfoglia dai quali, alla loro apertura, uscivano animali vivi (fagiani, lepri, caprioli) che correvano e volavano da una parte all’altra, con divertimento di tutti: questi poi, venivano scuoiati, cucinati e serviti in tavola, quasi fossero ancor vivi.

Molta importanza veniva data ai dolci, che sovente erano delle vere e proprie opere d’arte. Dopo i vari pasti, infatti, c’erano dolci e confetture, oltre a vino speziato; venivano servite pure le spezie da sole, perché si pensava che favorissero la digestione. Si dice che in questo periodo fu inventato lo zabaione, attribuito al bolognese Bartolomeo Scappi (Bologna, 1500 – Roma, 1570), cuoco segreto di papa Paolo III; egli fu ritenuto il maggior cuoco contemporaneo ed anche responsabile dell’eccessiva durata del Conclave del 1549, quello che portò all’elezione, dopo Paolo III, di Giulio III: si diffuse infatti la voce che i cardinali avessero perso troppo tempo ad assaporare i cibi serviti, rallentando così esageratamente l’elezione del nuovo papa.

Le cucine dei sovrani erano divise in numerosi reparti separati, tra questi la Spezieria per le spezie, la Pasticceria per i dolciumi, il settore dei Pastai per la preparazione di pastefrolle e così via; ogni reparto aveva a disposizione i propri locali, situati attorno ai cortili della reggia: purtroppo molto spesso le cucine si trovavano a grande distanza dal luogo del convitto, per cui i tempi d’attesa dei commensali erano talmente lunghi che le vivande arrivavano fredde sulla tavola, con grande disappunto degli ospiti.

Nelle corti rinascimentali italiane fu di gran moda, nei “pranzi ufficiali”, il banchetto a tema, sovente ispirato alla mitologia greca e latina. Ad esempio, in occasione delle nozze tra Alfonso II d’Este e Barbara d’Austria a Ferrara, si preparò un sontuosissimo pranzo dedicato a Nettuno: le portate furono oltre un centinaio e richiamavano, per la forma o per le decorazioni, il tema della festa. Chiuse lo spettacolare pranzo, un gigantesco “Trionfo di Nettuno” composto da novanta statue di zucchero e marzapane (un dolce già conosciuto fin dal tempo degli antichi romani) che affiancavano il dio con un vasto corteo di pesci e animali marini.

Anche Leonardo da Vinci fu grande allestitore di banchetti; molte Corti che l’ospitavano gli facevano sì realizzare grandi opere, ma sfruttavano le sue grandi competenze scientifiche anche per creare quei macchinari che venivano poi utilizzati come giochi scenici nei pranzi solenni offerti agli ospiti. Grazie agli scritti del Codice Atlantico, sappiamo che conosceva e sperimentava numerose erbe e tante spezie; tra queste citiamo la curcuma, l’aloe, lo zafferano, i fiori di papavero, i fiordalisi, le ginestre, l’olio di semenza di senape e l’olio di lino. Leonardo, negli ultimi anni della sua vita firmò pure un’inedita bevanda, “l’Acquarosa di Leonardo”, fatta con acquarosa, zucchero e limone, tutti filtrati “in tela bianca”. La bevanda, secondo lui, doveva essere servita fresca ed era da egli stesso definita “adatta all’estate calda dei Turchi”.

Il cibo dei poveri

L’alimentazione era strettamente in sintonia con il ceto d’appartenenza: c’erano, infatti, dei cibi non accessibili a tutti e dunque appannaggio solo dei ceti medio-alti. Rispetto alle ricchissime tavole rinascimentali appena descritte, nel Quattro-Cinquecento la situazione alimentare per le classi meno abbienti era alquanto diversa. I poveri vivevano letteralmente dei “frutti della terra” e i loro cibi più comuni erano questi: grano, orzo, segale, avena, miglio, ortaggi, etc… Mangiavano con posate molto rudimentali (quasi tutte di legno) e solo i ricchi potevano avere piatti e bicchieri personali: inoltre le classi inferiori condividevano il piatto, solitamente in coppia. Molto spesso le persone dei “ceti bassi” usavano come piatto dei “pezzi” di pane azzimo (non lievitato); alle volte ciò che rimaneva di questi “piatti” veniva dato ai poveri, ma più spesso veniva mangiato dalla stessa persona che l’aveva utilizzato. Più tardi questi “taglieri” di pane vennero sostituiti da pezzi di legno in forma quadrata che avevano una depressione circolare nel mezzo per accogliere il sugo dei cibi più liquidi; solitamente mangiavano con le dita, sebbene venissero usati anche i coltelli (con la punta, naturalmente, per “infilzare” la vivanda). Il cibo era preso da un gran piatto “comune”, poi veniva appoggiato sul pane e quindi mangiato.

I cereali venivano cotti a lungo nei paioli di rame, dando origine ad una poltiglia informe, una specie di polenta grigiastra e quasi priva di sapori; nel Medio Evo e nel Rinascimento, per insaporire si usavano le spezie, prodotti fuori portata per i poveri: infatti tali aromi erano carissimi, come d’altra parte lo zucchero; anche il sale costituiva un bene prezioso e molto caro. Il povero aggiungeva alle zuppe di legumi solo qualche erba aromatica spontanea, come la salvia o il timo; saltuariamente inseriva ceci e fave, ma anche, quando questi prodotti abbondavano, latte o pezzi di cacio; raramente aggiungeva il lardo, mentre le uova, provenienti dagli animali da cortile, venivano consumate a parte (d’inverno si utilizzavano molto le castagne).

Durante tutto il Medio Evo ed anche nel Rinascimento, difficilmente un povero si poteva permettere un pesce o un pezzo di lepre e ciò perché nessuno poteva pescare o cacciare nelle proprietà del feudatario o del signore senza il suo consenso, anche se c’erano terre “libere” o boschive. L‘alimento principale del desco contadino era il pane, però quello scuro, abbondante di fibre, poco raffinato e impastato con farine di cereali diversi. Il pane dei poveri era quasi sempre raffermo, poiché veniva preparato solo qualche volta al mese ed era somigliante a focacce scure ed azzime; era realizzato con cereali poveri, con fave, con ghiande, con crusca ed a volte, nei periodi di grande carestia, veniva aggiunta nell’impasto anche –addirittura- della segatura! Per i poveri, il pasto tipo consisteva in pane nero, brodo, ricotta o formaggio e una scodella di latte cagliato. I contadini mangiavano soprattutto polente, zuppe, focacce, pane di legumi e di segale. Molto diffusi erano anche i legumi secchi e le castagne; però sulla tavola dei poveri mancava la frutta, perché non era considerata parte essenziale dell’alimentazione ma piuttosto una golosità. Naturalmente, vi era un gran consumo di ortaggi, ad esempio i cavoli e le rape, coltivabili ovunque e reperibili per parecchi mesi.

La carne e i prodotti caseari conobbero un aumento di consumi (anche per le classi meno abbienti) in ambedue questi secoli, come conseguenza della diffusione degli allevamenti di bovini e ovini; il primo, venne favorito, a partire dal Quattrocento, dall’introduzione di nuove razze e dall’applicazione di nuove modalità d’irrigare i prati, invece il secondo fu strettamente collegato allo sviluppo delle industrie laniere. Mantenere mandrie di animali era molto più facile e meno costoso se confrontato ai pesanti lavori coltivi: ecco perché, sempre più spesso, nelle campagne si convertirono molte delle colture agricole in terreno da pascolo. Tutto questo favorì il largo consumo dei prodotti caseari anche fra le classi più povere; ricotte e formaggi divennero abituali sulle mense sia cittadine che campagnole. Ma questa non era certamente una novità, perché durante tutto il Medio Evo (e anche per tutta l’Età antica) i derivati del latte erano ben presenti: anzi, i latticini costituirono, assieme alla carne, la base alimentare dell’uomo-allevatore anche nella preistoria. La vera novità fu quindi il proliferare di opifici che lavoravano una quantità di latte assai rilevante, molto più dei secoli precedenti. Nel pre-Rinascimento nacquero anche tanti prodotti caseari che sono usati pur’oggi dai più rinomati “chef” nelle loro cucine.

Discorso diverso per gli allevamenti suini: durante tutto il Medio Evo, il pascolo per i maiali era abbastanza libero, concesso fin dal tempo dei grandi e piccoli feudi ai contadini e agli abitanti dei villaggi di campagna; non solo in montagna ma anche nelle pianure del nord-Italia (dove abbondavano selve e terreni paludosi ricchi di querce) erano numerosi i porcari, che facevano pascolare i suini nelle zone cosiddette “vallive”, ricche di querceti che fornivano “gratuitamente” ai maiali abbondanza di ghiande, oltre a tante altre piante erbacee spontanee.

Aggiungo, per terminare, questo dolce medioevale: chiunque può tentarne la “costruzione”: potrebbe anche riuscir bene …

PANCRISTIANO

Ingredienti: Pane raffermo, latte vaccino, uovo, strutto o burro (per friggere), cannella in polvere.

Preparazione:
Inzuppare il pane raffermo nel latte (in origine si usava il latte telato, cioè il latte appena munto, filtrato attraverso un telo) lasciandolo in ammollo per 5/10 minuti. Una volta che il pane avrà assorbito bene il latte, passarlo nell’uovo sbattuto e friggerlo nel burro o nello strutto. Rigirarlo spesso per evitare che si “strini”, scolarlo, asciugarlo con carta assorbente e cospargerlo con cannella in polvere. Possibilmente, consumarlo caldo.

Curiosità:
Questa ricetta, di poverissime origini, era destinata ai pellegrini. Durante il Medioevo e il Rinascimento, infatti, molti erano soliti fare pellegrinaggi a Roma. Questi, lunghi centinaia di chilometri, erano fatti a piedi e spesso da persone povere, che per sopravvivere si fermavano presso qualche contadino di buon cuore. Non ottenevano molto, ma quanto bastava per non morire di fame. Nei casi particolarmente pietosi, la padrona di casa dava loro il cosiddetto “Pancristiano” (cristiano inteso come “carità cristiana”). Il Pancristiano, inzuppato nel latte e nell’uovo, fritto nello strutto (a quei tempi si usava solo lo strutto, avanzo della macellazione del maiale) costituiva un cibo vigoroso e molto energetico, che “saziava” i pellegrini per un paio di giorni. Dicono le fonti dell’epoca che i Signori lo consumassero caldo, spruzzato di cannella.

Giulio Reggiani

FOTO

1 – Il mangiatore di fagioli- di Annibale Carracci

2 – Piatto di ceramica rinascimentale  con decorazioni

3 –  Forchetta a due rebbi

4 – I mangiatori di ricotta   di Vincenzo Campi

5 – Pancristiano