Torta di riso alla bolognese o alla ferrarese?

Torta di riso alla bolognese e torta di riso alla ferrarese. Dove sta la differenza? Ricette e ricerca storica di Giulio Reggiani e Roberto Cacciari
– Introduzione-
Già da svariati anni intendiamo proporre ai nostri (affezionati?) lettori un piatto conosciuto ed apprezzato del territorio di Poggio Renatico; ma tale piatto deve avere una tradizione legata a questo territorio ed anche un passato “autentico”. Non abbiamo mai derogato da questa nostra linea: infatti nei Quaderni poggesi abbiamo sempre puntato ad una visione “storicistica” della gastronomia nostrana, con cibi che dovevano avere un retroterra storico-cultural-localistico; piatti però ancora in auge tutt’oggi ed anche – e noi diciamo sicuramente – con un “futuro dietro le spalle”. Siccome abbiamo sempre puntato la nostra attenzione su alimenti “consistenti”, cioè costitutivi essenzialmente di “primi” o “secondi” piatti, stavolta vogliamo proporre ai nostri (affezionati?) lettori qualcosa che quasi sempre va a chiudere pranzi e cene: il dolce. Ci sono svariati dolci locali che hanno un passato centenario, anzi diremmo pluricentenario: fra questi ne abbiamo scelto uno che s’inquadra molto bene nella tradizione poggese: la torta di riso. Perché questa preferenza? Perché il territorio di Poggio Renatico ha un passato bolognese (fino al 1860 è stato in provincia di Bologna) però dall’Unità d’Italia in poi è diventato parte del ferrarese. Quindi si può dire che questo è il dolce da noi prescelto proprio per ragioni storico-geografiche (ancor oggi il Comune di Poggio si trova al limitare della Provincia di Ferrara e a due passi dalla Provincia di Bologna): infatti questa torta la troviamo tuttora nella tradizione gastronomica di entrambe le città. Anzi, vogliamo dir di più: la torta di riso è un dolce che travalica le nostre zone ed è diffuso, se non proprio in tutt’Italia, in numerose Regioni della nostra Penisola. Riguardo a questo dolce, proprio per analizzare le similitudini e le differenze fra le “scuole culinarie” dei due nostri centri urbani più vicini, vogliamo proporre ai nostri (affezionati?) lettori entrambe le ricette, cosicché si possa vedere il diverso modo d’interpretare il medesimo “gateau”, riuscendo anche a valutarne le diversità, sia organolettiche sia gustative, come pure di composizione e d’ingredienti.
Ecco ora le due torte di riso, con le loro affinità e le loro differenze.

  • Torta di riso alla bolognese (con mandorle, latte e cedro candito)

Ingredienti
Riso – 200 g.;
Latte – 1 litro;
Zucchero – 300 g.;
Mandorle – 100 g.;
Cedro candito – 100 g.;
Uova – 5;
Vanillina – 1 bustina;
Amaretto – 1 bicchierino.

Preparazione

1. Per prima cosa, mettete a cuocere il riso nel latte, aggiungete lo zucchero e mescolate. Mentre il riso cuoce, preparate gli altri ingredienti.

2. Tagliate a pezzetti il cedro candito (se non vi piace potete usare anche l’arancia, ma in questa torta è indispensabile un frutto candito). Inoltre tritate le mandorle non troppo finemente.

3. Aggiungete le mandorle e il cedro al riso, poi la vanillina, infine continuate a far bollire fino ad ottenere una crema densa. Lasciate raffreddare per 10 minuti, poi aggiungete le uova e mezzo bicchierino di amaretto.

4. A questo punto prendete la vostra teglia, imburratela, cospargetela di zucchero (che in cottura diventerà caramello) e versateci il composto. Infornate a 180 gradi per 55 minuti.

5. Una volta pronta, lasciatela riposare e poi bucherellatela con uno stecchino e versate il restante liquore all’amaretto. Servitela tagliata a losanghe e su ciascun rombo infilate uno stuzzicadenti per poter prendere la piccola porzione senza sporcarsi le mani.

Torta di riso alla ferrarese (senza mandorle e canditi)

Ingredienti
1 litro di latte intero;
250 g. di zucchero;
250 g. di riso;
5 uova;
Anice (facoltativo);
pangrattato (solo un po’).

Preparazione:

1. Portate il latte ad ebollizione con un pizzico di sale, versatevi il riso e, mescolando, cuocete per circa 20-25 minuti, in pratica finché il latte non si è ristretto.

2. Incorporate a fuoco spento (dopo qualche minuto) un uovo alla volta e lasciate raffreddare; cuocete poi in una teglia imburrata e cosparsa di pangrattato per 40-45 minuti a 170-180 gradi.

3. A piacere, si può aggiungere sulla torta un po’ di anice prima della cottura, oppure si può bagnarla appena uscita dal forno.

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Vogliamo fornire al lettore anche una piccola sintesi sulla complessità dell’allestimento d’entrambe. Eccola:

Difficoltà – media
Metodo di cottura – Multiplo
Preparazione – 15 minuti
Cottura – 75 minuti
Tempo totale – 90 minuti

Ora, avendo esposto le ricette, andiamo indietro nel tempo a osservare e verificare un po’ di storia del riso e della sua torta.

UN PIZZICO DI STORIA

Il riso in Italia

Sanno tutti che il riso è tipico dell’Asia, particolarmente delle zone monsoniche; oggi lo si trova anche in talune fasce africane equatoriali e perfino in Europa, ma soltanto nelle aree pianeggianti più settentrionali del Mediterraneo ricche di acqua, particolarmente nella pianura padana e in altre superfici europee – in verità alquanto limitate – con un clima continentale abbastanza piovoso. Questo cereale da alcuni secoli ha trovato un ambiente favorevole in Italia, in una fascia che va dalle risorgive padane al delta del Po; nei bassopiani bolognesi e ferraresi è stata per tanto tempo una coltura “privilegiata” per l’ottima rendita economica. Per quanto riguarda poi l’occupazione, l’utilizzo di manodopera – soprattutto femminile e bracciantile – risultava notevole in quanto il suo ciclo produttivo si estendeva per parecchi mesi, grosso modo da aprile ad ottobre.
Nei Comuni a cavallo del Reno, sia bolognesi che ferraresi, il numero delle “mondine” (che qui venivano chiamate in italiano mondariso) era veramente rilevante. Le nostre “mondariso” non avevano nulla da imparare dalle mondine piemontesi e lombarde, tanto che molto spesso, dagli anni ’30 dell’anteguerra fino a tutti gli anni ’50 del secolo scorso, venivano chiamate – in particolare nel vercellese – per svolgere colà non solo lavori generici ma anche mansioni specifiche.

Tornando al periodo produttivo di questa pianta, vogliamo spiegare per bene perché fosse così importante dal punto di vista occupazionale, in un territorio che vedeva oltre l’80% degli abitanti impegnati in agricoltura; per di più, il 60% erano braccianti, sia maschi che femmine. Il ciclo dei lavori iniziava a novembre da parte dei “braccenti” (che erano i cosiddetti “operai fissi”, da non confondersi con i “braccianti”, operai giornalieri) i quali livellavano i terreni, proseguendo con l’aratura; le operazioni continuavano poi con l’allagamento degli appezzamenti, portando il livello dell’acqua a ricoprire le “stoppie” del riso rimaste dalla raccolta dell’anno precedente. Dopo un consistente periodo di tempo, l’acqua veniva tolta riportando i terreni all’asciutto; poi si passava l’erpice, con gran cura nel ripulire i fossi e i piccoli canali che si ramificavano nella “piana” (era chiamata piana quel terreno – di forma quadrata o rettangolare – che ospitava le colture; era delimitata da arginelli o da cavedagne, le quali separavano gli appezzamenti l’uno dall’altro).

Terminate queste “pulizie” si passava alla concimazione pertanto, immettendo di nuovo l’acqua, si allagava il terreno; quindi verso la metà di aprile, si seminava il riso. Circa alla metà di maggio cominciavano i lavori di diserbo ed a giugno si trapiantavano le piantine dove non avevano attecchito o dov’erano troppo rade. La mietitura iniziava in settembre e la data d’avvio si differenziava, a volte anche di svariati giorni, a seconda del tipo di riso seminato; si terminava generalmente alla fine di ottobre.

Il riso, falciato a mano, era poi sistemato in covoni ed inviato all’essiccatoio, per poi essere sistemato nei magazzini; veniva successivamente portato alla pila e da lì partiva per essere commercializzato. Ma oltre al chicco si utilizzava anche la paglia ricavata dallo stelo: con quella si facevano cappelli (famosi nel mondo erano i cappelli di paglia di Firenze), s’impagliavano svariati oggetti destinati alla spedizione e pure numerose industrie usavano la paglia di riso come normale imballaggio.

Però le risaie sparirono dai nostri territori all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, sostituite da altre colture estensive “asciutte” (quali il grano, la barbabietola da zucchero, il mais, il girasole, la patata, la cipolla) che utilizzavano molta meno manodopera bracciantile; comparvero allora massivamente altre piante più redditizie (quali asparagi, fragole, alberi da frutto di vario genere) a carattere intensivo.

Ma questo cereale, che aveva sfamato e dato lavoro a diverse generazioni per quasi sparire in seguito, oggi sta ritornando “in auge” nel Basso-Ferrarese, particolarmente nei Comuni di Iolanda di Savoia e di Codigoro; inoltre i risicoltori rodigini e ferraresi si sono ora associati nel “Consorzio di Tutela del Riso del Delta del Po IGP” che ha codificato la sua produzione nell’apposito disciplinare, stabilendone così modi e tempi di coltivazione: il Carnaroli del Delta del Po è forse il riso più pregiato d’Italia. Attualmente sono in essere alcune sperimentazioni di coltivazione del riso anche in Provincia di Bologna, particolarmente nelle campagne di Bentivoglio e Argelato, zone che hanno avuto fino ad una cinquantina di anni fa una grande tradizione risicola.

La torta di riso

Anche questo dolce ha la sua storia: oggi viene chiamato comunemente torta di riso ma il suo vero nome è legato ad una festa religiosa del XV secolo a Bologna durante la quale si esponevano sulla facciata delle case i cosiddetti addobbi, quei drappi rossi che, appesi alle finestre, volevano omaggiare il Corpus Domini durante la processione: ecco perché la torta di riso nella città felsinea è chiamata anche torta degli addobbi. Tale festa fu istituzionalizzata nel 1470, dapprima nelle parrocchie di città, poi anche nel contado. Siccome oggi i componenti di base sono il riso, il latte, le uova, lo zucchero, le mandorle e, nel bolognese, i canditi di cedro, la scorza di limone e altri, dobbiamo fare un passo indietro e spostarci proprio nel XV secolo.

Cominciamo col rilevare che il riso era un cereale alquanto costoso. Da poco tempo era iniziata la sua coltivazione nei Ducati di Ferrara e di Mantova, che erano uniti sì da vincoli di parentela, ma anche da condizioni ambientali abbastanza simili. Si sa che il riso richiede superfici coperte d’acqua, cosa che là era facile da ottenere. Ma pure lo zucchero era caro, così come le mandorle, tipico frutto dell’Italia meridionale, da noi appannaggio solo delle classi nobili e benestanti; inoltre la frutta candita e gli agrumi erano venduti nelle “Speziarie” – le farmacie del tempo – le quali, oltre a numerose piante officinali, vendevano ovviamente anche quei prodotti, oltre alle spezie. Com’è facile intuire, i loro prezzi erano elevati, non certo abbordabili per le classi più umili; al contrario latte e uova erano alimenti assai comuni, accessibili a tutte le tasche. Com’è possibile che sia stata creata, nel XV secolo, una ricetta “popolare” – semplice ma parecchio cara – utilizzando un insieme di ingredienti abbastanza variegati per quell’epoca, la maggior parte dei quali tanto costosi?

Però riusciamo ad andare ancor più indietro nel tempo, addirittura al Trecento: ce lo conferma Ettore Scagliarini, il quale dice testualmente: «Nelle mie letture di libri di cucina medioevali mi sono imbattuto in una ricetta del 1300 riportata da Ludovico Frati nella sua pubblicazione del 1899 intitolata appunto “Libro di cucina del secolo XIV”. É denominata “Rixo in bona manera” ed è scritta in volgare veneto o veneziano».

Ci sono da fare alcune puntualizzazioni storiche: in Italia, il riso a quel tempo era un cereale d’importazione, così come lo zucchero. Le mandorle erano, e sono tuttora, un tipico prodotto dell’Italia meridionale. Scrive poi lo Scagliarini: «Ho il sospetto che il veneziano abbia trascritto una ricetta originaria del meridione italiano ed, in particolare, nata quando gli arabi erano presenti in detta area. Erano loro gli importatori di riso e zucchero. Anche il quantitativo di mandorle non è trascurabile, è pari a quello del riso. Un cibo piuttosto costoso».

Alla Corte Estense, nel Cinquecento, il riso faceva parte di svariate portate nei banchetti “diplomatici” e possiamo ipotizzare che venisse utilizzato anche nella sua versione “dolce”; lo deduciamo pure dal fatto che la torta di riso ferrarese era (ed è tuttora) molto più “sobria” rispetto alla sua sorella bolognese. Alcuni studiosi di gastronomia ipotizzano che il “dolce con il riso” sia stato introdotto in Italia dal più famoso cuoco del Quattrocento, Maestro Martino da Como, ma noi pensiamo che pure Cristoforo da Messisburgo usasse il riso a Ferrara, forse seguendo i dettami culinari di Martino.

Ma come si è evoluta questa ricetta sino alla torta di riso attuale? Anzitutto si andò sostituendo il costoso latte di mandorle con il più economico latte vaccino (o caprino); poi le mandorle, ridotte ad una quantità modesta, finirono solo nell’impasto. Però lo zucchero rimaneva, anche dopo alcuni secoli, assai caro; successe che, per risparmiarne buona parte, si pensò di compattare la torta, dopo che il riso aveva assorbito il latte, attraverso le poco costose uova ed aggiungendo una seconda cottura, come già si faceva con altre torte. Tuttavia lo zucchero restava ineliminabile e contribuiva fortemente ad elevarne il prezzo. Ma col passar degli anni (e dei secoli) con l’avvento dello zucchero di barbabietola che cominciava a sostituire quello di canna, divenne sempre più alla portata di tutti; il resto degli ingredienti, dai canditi al limone, costituirono delle aggiunte che affinarono ed arricchirono il prodotto finale. Così oggi possiamo considerare la torta di riso accessibile a tutte le tasche.

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In alcune regioni italiane, la torta di riso si prepara pure salata: la si mangia con l’aperitivo oppure come secondo piatto, anche vegetariano. Noi, a corollario della torta di riso dolce, vi proponiamo altresì la ricetta di quella salata.

  • Torta di riso salata (ricetta dell’Alta-Lombardia)

Ingredienti

300 g. di riso da minestra, abbastanza piccolo e possibilmente tondo;
50 g. di burro;
3 uova;
4 carciofi puliti e tagliati a fettine;
50 g. di parmigiano grattugiato;
100 g. di formaggio saporito (Crotto) (50 g. grattugiato e 50 g. a fette);
sale e pepe, q.b.;
pangrattato per gli stampi e per lo spolvero.

Preparazione

L’allestimento della torta salata della Valtellina e della Valchiavenna, riguardo ai tempi di preparazione, è equivalente a quella dolce; la vera differenza sta nella cottura del riso, che non viene bollito nel latte ma nell’acqua (in alcune zone si usa anche bollirlo in un brodo leggero). L’aggiunta degli altri ingredienti è progressiva: dapprima le uova, poi le verdure ed infine il formaggio. Anche la teglia è trattata in modo analogo.

La torta di riso salata è un “piatto unico” idoneo ad ogni occasione; è adatta per picnic così come per un veloce pranzo in ufficio, oppure per una “apericena” in piedi. Per preparare delle mini-tortine da portar fuori, occorre poco più di un’ora; si possono mangiare fredde, con verdure -a seconda della stagione- quali carciofi, asparagi e zucchine. Si potranno usare anche peperoni e broccoli, oppure dei funghi (champignon o altri) passati velocemente in padella con qualche erbetta per insaporirli. La base naturalmente è il riso. Oltre alle verdure, ci si deve mettere la fantasia, per ottenere degli ottimi tortini di riso o una torta grande da mettere in tavola per un pranzo. Si possono anche aggiungere al riso sia formaggio che uova.

SPIGOLATURE E CURIOSITA’

Il Libro de Arte Coquinaria di Martino de’ Rubeis (o Martino de’ Rossi) detto Maestro Martino da Como, è scritto in volgare e concentra in 65 fogli – non numerati – l’arte di un cuoco estroso e modernizzatore come intendeva essere il suo autore. La datazione di quest’opera è incerta, anche a causa delle varie stesure e aggiunte (almeno quattro sono i suoi manoscritti) che Martino fece nel corso degli anni. Possiamo affermare che la stesura di questo volume ha occupato un periodo che va dal 1456 al 1467. Un elemento caratterizzante delle sue pietanze è il recupero del gusto “originale” delle materie prime, evitando l’abuso di spezie, com’era d’abitudine nella tradizione medioevale quando la loro abbondanza simboleggiava la prosperità del padrone di casa. Anche sui tempi di cottura, Martino dà indicazioni che oggi possono apparire bizzarre, ma che vanno contestualizzate alla sua epoca: si doveva recitare un certo numero di preghiere (Pater Noster, Miserere, etc.) attendendo che le pietanze andassero a cottura. Questo singolare suggerimento era un ingegnoso espediente attraverso il quale il vulgus – al quale il libro era principalmente dedicato – poteva regolarsi sulla giusta cottura tramite uno “strumento”, le preghiere, ad esso ben noto. Ad esempio, egli afferma: «Et un’altra volta lo lassarai bollire per spatio quanto diresti un miserere»).

Quasi un secolo dopo, a Ferrara “dominava” le cucine Estensi Christofaro di Messisburgo, che in precedenza aveva avuto, nonostante la sua giovane età, importanti missioni politiche e diplomatiche, continuando in tal modo l’opera del padre, Antonio, che aveva servito i duchi di Ferrara  a fine ‘400. Con Ercole II d’Este, Cristoforo divenne Provveditore, mantenendo l’incarico sino alla morte. Fu nominato “Conte Palatino” e prese in moglie la nobile ferrarese Agnese di Giovanni Giocoli. Poi la famiglia Estense s’imparentò con quella dei  Gonzaga, così da Ferrara Cristoforo si spostò su Modena e Mantova, divenendo  consulente della duchessa Isabella d’Este. Le sue spoglie si trovano a Ferrara, nella chiesa di Sant’Antonio in Polesine.

Cristoforo da Messisburgo scrisse un importante libro di ricette dal titolo “Banchetti, composizione di vivande e apparecchio generale”, in cui sono elencati tutti gli elementi necessari per approntare un banchetto principesco (spaziando dall’arredamento agli utensili da cucina). Il volume contiene numerose ricette, meticolosamente dettagliate; esso rimane una pietra miliare nella storia della gastronomia europea del Rinascimento, accogliendo tradizioni e gusti sia italiani che europei ed extraeuropei. L’opera nel tempo verrà ripubblicata con leggere varianti: vi si trovano pure antiche ricette, fra le quali alcune riguardanti la preparazione del “caviale di storione alla ferrarese”. A quei tempi gli storioni abbondavano nel Po e nelle selve dell’entroterra era normale trovare parecchi tartufi: anche per questo il caviale, i funghi e i tartufi erano parte essenziale delle sue ricette. Nel libro figura pure la salama da sugo, che pare esistesse già prima come piatto di Corte, ma che egli riusciva ad elaborare in modo personale accoppiandola con contorni di verdure cotte e crude.

Per cercare i tartufi, veniva utilizzato – come oggi – il cane; però molto più spesso veniva usato il maiale che, allevato in modo specifico per trovare il prezioso tubero, era molto più idoneo ed affidabile, avendo un fiuto molto efficace, addirittura superiore a quello del cane.

Come già accennato precedentemente nel testo, nelle nostre zone le donne che lavoravano nelle risaie non venivano chiamate “le mondine” bensì al risaróli (il corrispettivo italiano sarebbe risaiole o risarole). Questo termine dialettale era molto più calzante, in quanto derivato dal nome della pianta, il riso, e non dalla sua manipolazione, la monda;

Nella torta di riso salata delle zone di Valtellina e Valchiavenna (alta Lombardia) che noi abbiamo precedentemente richiamato, viene consigliato l’uso del crotto, un formaggio semiduro che prende il nome proprio dai crotti, le cavità naturali caratteristiche di quelle montagne, in cui si stagionano formaggi, bresaola e vini. Assieme ai pizzoccheri, alla polenta taragna, alla polenta ùncia e alla bresaola, il crotto costituisce uno dei pilastri della gastronomia e delle tradizioni culinarie di quel territorio.

Sulla lavorazione del riso e sulle mondine è stato fatto un film nel 1949 che è entrato nella storia del cinema italiano. Il suo titolo, Riso amaro, fa proprio riferimento ad una vicenda che s’inseriva nella vita delle mondine “forestiere” durante il periodo del trapianto del riso nelle campagne del vercellese. Il produttore Dino De Laurentis ed il regista Giuseppe De Santis lanciarono nel firmamento del cinema la nuova stella Silvana Mangano (che poi sposerà il celebre produttore) assieme a Raf Vallone e Vittorio Gassman. Quel film fu il vero manifesto del Neorealismo cinematografico italiano ed ottenne un grande successo di pubblico, sia in Italia che all’estero.

Per Riso amaro, in occasione delle celebrazioni per il 65º Anniversario delle riprese del film, è stata organizzata nel Comune di Salasco (uno dei paesi nel quale il film è stato girato) una proiezione speciale organizzata sia da quel Comune che dalla Provincia di Vercelli, da Telethon Piemonte e da vari Enti ed Associazioni.

Il termine “Salasco” ci ricorda storicamente il famoso “Armistizio Salasco” della Prima Guerra d’Indipendenza, firmato il 9 agosto 1848. Ebbene quel Salasco non è riferito al Comune vercellese bensì al nome del generale che lo firmò, Carlo Canera di Salasco.

Al momento del ritorno a casa, alle mondine (o risaiole) veniva dato, al termine dei lavori agricoli, oltre alla paga in denaro anche un certo quantitativo di riso, stimabile in 1 kg. per ogni giorno pieno di attività. Era gran punto d’orgoglio portare a casa quel sacco pieno di riso, che sarebbe poi stato consumato in famiglia durante l’inverno.

Nella torta di riso ferrarese parecchie massaie aggiungevano un pizzico di sale al momento della bollitura del latte. Non era una regola fissa, ma noi l’abbiamo citata nella nostra preparazione perché lo si faceva in parecchie località vicine a Poggio Renatico.

Anche nei canti popolari abbiamo testimonianza della coltura del riso in una famosa “ballata” dal titolo “Sciùr padrùn da li béli braghi bianchi. I primi versi del testo dialettale sono esattamente questi: «Sciùr padrùn da li béli bràghi bianchi, föra li palànchi, föra li palànchi. Sciùr padrùn da li béli bràghi bianchi, föra li palànchi ch’andùm a cà.» Parecchi studiosi di folclori e musiche popolari italiane attribuiscono questo brano alla tradizione lombarda; noi invece stiamo dalla parte di Roberto Leydi (21/02/1928-15/02/2003, uno dei più grandi ricercatori di etnomusicologia, docente per tanti anni all’Alma Mater bolognese) che assegnava il brano al dialetto reggiano, in particolare al paese di Gualtieri, in provincia appunto di Reggio Emilia.

Ora una nostra osservazione, che non è solo di costume ma anche storico-estetica e fors’anche religiosa. Il riso, durante il Basso medioevo – essendo il bianco considerato il colore della chiarezza e della pulizia – godeva di una forte richiesta presso il cosiddetto “Popolo Grasso”, quel ceto emergente che spesso ostentava la sua agiatezza. Le ricette col riso s’inquadravano benissimo nel cosiddetto “Biancomangiare”, vale a dire quegli alimenti che al momento del consumo dovevano risultare bianchi per richiamare lo splendore dell’anima: ecco perché vi era una particolare ricerca di vivande di colore bianco. Presso i più facoltosi erano molto richieste anche le portate color oro in quanto simboleggiavano la ricchezza: da ciò, l’abbondante consumo di zafferano da parte delle classi più abbienti.

Giulio Reggiani e  Roberto Cacciari

NOTA

– Questo saggio sulla “torta di riso” è tratto dai “QUADERNI POGGESI” dell’anno 2019. LA CUCINA NOSTRANA NEL TEMPO Piatti poggesi di ieri e di oggi (…e forse anche di domani). PICCOLA RUBRICA STORICO-GASTRONOMICA

  •  I lettori possono procurasi l’intera pubblicazione prenotandola presso questo indirizzo-mail: storiepoggesi@gmail.com

FOTO

1- Torta di riso alla bolognese

2 – Torta di riso alla ferrarese

3 – Risaia nel Parco naturale del Delta del Po

4 – Riso pronto per la monda

5 – Le mondine in Polesine , dipinto di Ettore Tito 1885

6 – Torta salata

7- Il castello di Ferrara, dimora degli Este

8 – Mondine  in risaia di Bentivoglio, anni  1950