Antichi rituali per “caricare” gli alberi di frutti. Ricerca di Gian Paolo Borghi

CON UNA PERTICA SI BATTEVANO
TUTTI QUESTI FRUTTI

ASPETTI E FORMULE DI UN RESIDUALE
CULTO DEGLI ALBERI IN TERRITORIO EMILIANO di Gian Paolo Borghi

(testo estratto dal volume ”
L’albero,
tra simboli, miti e storie”, di AA.VV.
A
cura di
Carlo Tovoli)
http://online.ibc.regione.emilia-romagna.it/I/libri/pdf/VerdeMaesta.pdf
Poliedricità  di un rituale
Espongo i risultati di una mia ricerca
pluriennale, da considerarsi comunque work in progress, su
modalità e formule che documentano l’esistenza, almeno sino agli
anni ’30 del secolo scorso, di tracce di culto degli alberi
in area emiliana
(1). Si tratta di un rituale di
battitura delle piante,
con formule, rilevato attraverso
fonti scritte (in gran parte non specialistiche e frammentarie) e
orali nei territori modenese (dove viene identificato
con il termine Cargatà, incipit delle formule
augurali), ferrarese e bolognese, ma che è stato
ampiamente riscontrato anche in altri areali, sia pure con procedure
cerimoniali diverse.
Scrisse, ad esempio, il demologo Giovanni
Tassoni riferendosi ad un rito un tempo in uso nelle Grandi Valli
veronesi la notte di Pasquetta, la prima Pasqua dell’anno:
si rammenta ancora, affievolita dagli
anni, l’azione epifanica della percossa ammonitrice ed il distico
assonante che l’accompagna, inteso a propiziare mediamente lo
spirito del vigneto perché si carichi (carga) di grappoli
sugosi per quante faville (falie) salgano al cielo:
Carga, carga bati e bati
ogni falia fassa un grapp (2).
Già il romagnolo Michele Placucci
aveva rilevato la funzionalità di questo rituale, nella sua terra,
messo in pratica alle albe del 25 gennaio (Conversione di San
Paolo, popolarmente definito di San Paolo dei segni) e del
Giovedì Santo: armati i loro ragazzi di grosso bastone, mandano i
contadini e percuotere le piante, poiché maltrattate, producono,
dicon essi, molte frutta, e saporite alla loro stagione (3).
Studi folklorici romagnoli redatti in
anni successivi (alcuni anche in tempi a noi più vicini) hanno
appurato che alla “legatura” del Giovedì Santo faceva
seguito la “slegatura” delle piante il Sabato Santo,
nella convinzione che quando quegli alberi fioriranno, ogni fiore
produrrà un frutto (4).
Nel faentino, una formula propiziatoria
connessa alla battitura della vigna (ma anche agli altri raccolti del
ciclo agrario) veniva recitata il Sabato Santo, alla slegatura delle
campane:
Fala grosa e tenla stretta,
fa ch’a otobre la sia zeppa.
La timpesta stea luntan,
l’abundanza par tot l’an (5).

Non di rado legato al fuoco e alla
contestuale recitazione di formule propiziatorie, il culto degli
alberi è noto in ampi areali europei. Riporto alcune
esemplificazioni relative a pratiche un tempo esistenti in Francia,
alcune fin dal XV secolo:
Nella prima metà dell’800 era
quasi generale in Francia l’uso di girare per i campi con torce
accese; ai piedi degli alberi si recitano o si cantano dei versi
tradizionali che esprimono gli auguri del raccolto, talvolta in forma
di minaccia.
L’uso di legare gli alberi del
frutteto con una treccia o una fune di paglia nell’intento di farli
produrre di più, rilevato in Francia già nel ’400, è ancora
praticato in occasione di determinate feste, diverse peraltro nei
vari paesi. Nella Corrèze la legatura delle piante si fa la vigilia
di Natale al pomeriggio, ma solo gli alberi che non hanno portato
frutta per distinguerli dagli altri e far loro comprendere che se
l’estate seguente non daranno un buon raccolto verranno tagliati.
[…] per ottenere frutti in abbondanza si usa battere gli alberi in
giorni determinati, i contadini bretoni la vigilia di Natale li
colpiscono uno dopo l’altro con la forca, strumento cui
attribuiscono speciali poteri (6).
La presenza purificatorio-fecondante
del fuoco, sostitutiva dell’operazione di battitura, è stata tra
l’altro accertata nel reggiano, la vigilia dell’Epifania, e in
Triveneto:
“i ragazzi […] alzando stretti
in pugno mannelle di canavuc (canapule) legate con stoppa (la fibra
di scarto della canapa) e incendiate come una torcia, correvano con
queste sotto gli alberi da frutto gridando Fasagna, fasagna! Tut i
brôch una cavagna! (Fasagna, fasagna! Che tutti i rami diano una
cesta di frutta!); siccome rimembranze di questo rito propiziatorio
si trovano solo nell’area agricola delle Tre Venezie, ciò fa
logicamente pensare che esse derivano dalle antiche popolazioni
venetiche, che attribuivano al fuoco non solo potere purificatore ma
anche fecondante (7).
Prima di passare alla delineazione del
rito della battitura degli alberi, preciso che in alcune formule si
notano evidenti tentativi di una sua cristianizzazione, allo scopo di
condurre in un alveo religioso pratiche “pagane” che, nella
maggior parte dei casi e in ossequio alla tradizione,
sarebbero state
ugualmente poste in essere, magari in forma semiclandestina. Segnalo
che la medesima costumanza è stata pure riscontrata nella forma
della questua itinerante infantile/giovanile.

Il culto degli alberi nel
modenese, nel ferrarese e nel bolognese

Già alla fine dell’800 l’antropologo
modenese Paolo Riccardi aveva segnalato, tra i Pregiudizi,
gli spergiuri, scongiuri ecc. d’ordine agricolo, l’esistenza
nel suo territorio di alcune superstizioni agricole connesse agli
alberi da frutto e praticate in due significativi giorni del ciclo
calendariale, la vigilia di Natale e l’Epifania. La
gestualità correlata si esplicava con la battitura delle
piante,
la spargitura della cenere, l’uso del
prodotto della filatura per legare gli alberi
(operazione
svolta anch’essa da una bambina, simbolo d’innocenza, ma anche di
futura fertilità) e la recita di preghiere liturgiche:
Nel giorno dell’Epifania (6
gennaio) detta in dialetto nostro Pasquetta, molti contadini
usano di andare a bastonare con ramoscelli gli alberi da frutta,
dicendo:
Carga, carga, e tin, tin,
fan trèinta panèr st’an ch-vin;
e cioè: “caricati, caricati (di
frutti) e tienli, tienli; fanno trenta ceste nell’anno che sta per
venire”.
Altri invece nel dì
di Pasquetta usano spargere cenere sugli alberi da frutta per averne
assai: e durante l’operazione dicono:
Carga, carga e tin, tin,
carga ed pàm e pomadin:
“Caricati, caricati; tienli,
tienli, caricati di mele e di piccole mele”.
Sempre per la frutta: alla vigilia
del Natale si fa filare da una bambina un po’ di canapa o di lino,
e co ’l filo si manda la bambina, a digiuno, a legare gli alberi da
frutta: compiendo l’operazione con un Pater o un’Ave, gli alberi
daranno di certo molti e buoni frutti (8).
Il rituale sarà oggetto, quasi un
settantennio successivo, di una comunicazione presentata al Primo
Congresso del Folklore Modenese. Uno studioso locale,
appassionato di tradizioni popolari, raccolse da fonti orali una
formula augurale di maggiore ampiezza, la cui beneaugurante struttura
testuale era pure indirizzata ad altri prodotti della terra. Secondo
il raccoglitore, fu in vigore nella pianura modenese fino a pochi
decenni or sono il giorno di Santo Stefano Protomartire. Il
testo presentato, già in funzione nel territorio di Cavezzo,
dimostrava inoltre che erano state pure mutate le situazioni della
sua recitazione: non era più direttamente legato alla battitura
degli alberi da frutto (cui peraltro si richiamava nel suo incipit),
ma si era tradotto in una rima augurale di questua itinerante:
i bambini, andando in giro pei casolari
di campagna e per le case del paese, usavano raccogliere qualche
leccornia con questa strofetta:
Cargatìa tìa tìa                                                 
Caricatorìa torìa
torìa
carga bèn sèn                                                   Stìa
caricate bene santo Stefano
e di pir e di pòm                                                
e di pere e di pomi
tuta la ròba ch’agh è al mònd                           
e di tutta la roba che c’è al
mondo
e dal fèn pr al cavalèn                                       
e di fieno per il cavallino
e dla gianda pr al ninèn                                     
e di ghiande per il maialino
e dal grèn ind al granàr                                      
e di grano nel granaio
ch’a ’n gh’in pòsa mai
mancàr!                            che non ne possa mai
mancare! (9).
Probabilmente non a conoscenza delle
ottocentesche ricerche di Paolo Riccardi, il ricercatore avanzava
un’ipotesi che era tuttavia vicina alle conclusioni
dell’antropologo:
L’augurazione pare un’invocazione
alla Natura, perché nel volgere imminente dell’anno prepari
abbondanti raccolti, che ricompenseranno al gente che ha
generosamente premiato i piccoli annunciatori (10).
Altre formule beneauguranti,
recitate il giorno di Santo Stefano, spesso risultanze di
raccolte dilettantesche, ma in ogni caso utili a tracciarne una
mappatura territoriale, sono state rilevate in alcune località della
pianura modenese, spesso in forme totalmente defunzionalizzate. A
San Prospero sulla Secchia,
così recitavano i bambini
questuanti (si era ormai perduta, tra l’altro, anche la conoscenza
del rito della Cargatìa, divenuto Carga tia-tia-tia,
significativamente e ritmicamente diverso):
Carga tia-tia-tia
di pom ad pumaria
di pir e di pom
tuta la roba
ch’a gh’è al mond
e dal gran in dal granèr
ch’an gh’in posa mai manchèr
e dal fèn par i buvarein
e dla gianda par i ninein
carga -carga Stivanein (11).
Priva di qualsiasi commento e relegata
al generico ruolo di filastrocca infantile, ma chiaramente legata al
rituale della Cargatìa di questua, si rivela la seguente
formula augurale, raccolta nel mirandolese:
Cargatìa tia, tia
carga ben San Stevan
pin ad pir, pin ad pom
e d’tutt la robba ch’a gh’è
in st’mond,
con d’la gianda pr’al ninein
con dal fen pr’al cavalèin
e dal gran in dal granar
ch’an gh’in pòssa mai mancar
(12).
Un’altra lezione
di questi versi augurali, assai simile a quella cavezzese, venne
raccolta in un generico territorio modenese di pianura dal
folklorista geminiano Roberto Vaccari:
La mattina del
giorno di Santo Stefano, piccoli gruppi di ragazzi si presentavano
alle case dei contadini cantilenando in coro una breve poesiola di
tipo augurale, in cambio della quale ricevevano in regalo qualche
noce, qualche tortello dolce, ecc.:
Cargatìa, cargatìa
carga ben, San Stian,
e di pir e di pòm,
tùtta la robba ch’a gh’è a
st’mond
e d’la gianda pr’al ninèn
e dal fen pr’al sumarèn
e dal gran in dal granar
ch’an gh’in pòssa mai mancàr
(13).
Inchieste
più esaustive, che riconducono il rituale alla sua originaria
funzione, sono state realizzate nel carpigiano dal locale Centro
Etnografico, impegnato per
diversi anni in campagne di rilevazione di forme e aspetti delle
feste del ciclo calendariale. Non mancano, in ogni caso, in taluni
versi (in specifico, nelle formule seconda e terza), riferimenti a
probabili pratiche di questua itinerante, praticate sempre il giorno
di Santo Stefano. Il riferimento ad una generica
vecia (vecchia),
nella prima strofetta, potrebbe accennare a collegamenti con la
successiva
festa dell’Epifania
(popolarmente denominata Vècia),
che chiude i dodici giorni del ciclo natalizio:
Questa
usanza, peraltro non più praticata, ma ancora viva nella memoria dei
contadini della nostra campagna, ha tutti gli aspetti di un rito
propiziatorio, e quasi sicuramente per analogie con riti di altri
paesi europei, la bastonatura delle piante altro non era che un rito
antichissimo, perpetuato
ormai inconsapevolmente, per scacciare gli spiriti maligni dalla
pianta al fine di avere un buon raccolto.
L’azione della bastonatura era
accompagnata da tiritere somiglianti a formule magiche, varie tra
loro ma con il medesimo significato:

Carga carga Stivanein
carga di pom e di pumein
grapa e grapein
nos e nusein
carga la vecia di boun turtlein.
Carga carga San Steven
e di pir e di pom
tuta la roba ca gh’è in st’mond
al gran in dal graner
al galeini in dal puler
carga San Steven.
Carga Stivanein
nus e nusein
grapa e grapein
tùta la roba a sti putein.
Carga carga Stivanein
pom e pir e garufanein (14).

In
tempi più recenti, un etnografo popolare di Finale
Emilia,
ha pubblicato un
testo augurale di questua itinerante, che ancora una volta richiama
alla memoria il rituale della Cargatìa.
In gioventù testimone del rito nella campagne finalesi, ricorda che
il suo svolgimento si realizzava il mattino del giorno
di Sant’Antonio Abate
,
protettore degli animali:
Tanti anni fa, il
17 gennaio era usanza per i bambini visitare le case coloniche nelle
prime ore del mattino; appostati sulla porta della stanza attendevano
l’uscita del bovaro e recitavano la seguente filastrocca:
Cargatìa cargatìa
’na navaza pina ad turtìa
pina ad pir
pina ad póm
e tuta la roba ch’agh è in ’st
mónd
al fen p’r al cavalìn
la gianda p’r al ninìn
al gran in-t al granar
ch’an gh’in pòsa mai mancar.

Il bovaro, vero
“sacerdote” della vita della stalla, elargiva allora qualche
soldino oppure un tortello ripieno di castagne cotte (15).

Anche
nel confinante territorio ferrarese
il culto è stato rilevato, soprattutto nella forma tradizionale e in
diretta connessione con l’Epifania. Si
tratta, in specifico, della campagna centese, nella quale sono state
raccolte testimonianze di due donne di Renazzo che lo praticarono in
fanciullezza. La prima donna, memorialista locale, spiegò la
pratica della battitura degli alberi
in
un più esaustivo contesto di esperienze di vita e di rituali, anche
con impliciti significati catartici:

Il cinque gennaio era detto al zep dla vecia
ed era giorno di gran trambusto, di attesa, di allegria. Già al
mattino molte famiglie in collaborazione coi bambini e ragazzi del
vicinato, preparavano la vecia,
una specie di fantoccio costruito con legna, un po’
di paglia e qualche straccio
.
La vecia veniva posta
in mezzo ad un campo ed ivi lasciata fino all’imbrunire, quando con
grande partecipazione
di bambini veniva
incendiata
. Era, quello,
un momento magico e solenne: in infiniti punti dell’orizzonte si
vedevano chiarori, tutto il cielo sembrava in fiamme e un allegro
vociare si diffondeva nell’aria. Erano i bimbi, che festosi
correvano intorno al falò, gridando e ripetendo strane filastrocche:
a brusa la vecia
brusa al fcion
brusa la vecia t’Pipajon
[brucia
la vecchia/brucia il vecchione/brucia la vecchia di “Pipaione”].

Prima
di cena aveva luogo la cerimonia di battitura delle
piante da frutto
e questa
operazione doveva essere eseguita possibilmente da un’anima
innocente, per cui gli incaricati erano i bambini,
che muniti di un lungo e sottile bastone, andavano di pianta in
pianta battendola dolcemente e ritmicamente sul tronco e recitando ad
alta voce una specie d’invocazione. Se, ad esempio, la pianta fosse
stata un melo si diceva:
A bat a bat i mi milun
che st’etr an i sipan bon
fan dimondi, fali grosi e tinli tuti
[batto
batto le mie melone (= grosse mele)
/che quest’altr’anno siano buone/fanne molte, falle grosse e
tienile (= conservale
sulla pianta) tutte].

Se
invece si fosse trattato di un pero o di un ciliegio, si diceva
pirun o zrisun, e così via di
pianta in pianta si battevano tutte. In casa mia tale usanza è stata
praticata fin verso il 1935 ed io ne sono stata l’ultima
battitrice.
Dopo
cena si restava intorno al grosso ceppo acceso ad aspettare al veci e
quella sera ne potevano anche venire quattro o cinque compagnie. In
fciunera [festa, veglia della Vecchia]
ci andavano i grandi o per lo meno la maggior parte del gruppo era
costituita da persone adulte (16).

Il rituale mi era
stato precedentemente riferito durante un incontro con la stessa
memorialista, che anticipò quanto sarebbe stato dato alle stampe,
con alcune interessanti precisazioni:

Noi penso che siamo
stati gli ultimi a batterli; lo abbiamo fatto in famiglia finché non
sono divenuta grande. Prima di andare a cena, tutti battevano gli
alberi, per risvegliare la natura, risvegliare le piante. Noi usavamo
il superlativo per stimolare le piante a fruttificare il meglio
possibile: le chiamavamo melone, perone, cigliegione, e così via
(17).

La
seconda donna protagonista diretta del cerimoniale, apparteneva
anch’essa alla realtà contadina della Partecipanza
Agraria di Cento. La sua è
un’ulteriore formula, che richiama alla memoria la Cargatìa
modenese; l’operazione di
battitura, nella sua famiglia, si svolgeva il pomeriggio della
vigilia dell’Epifania:

[A battere gli alberi da frutto]
c’andavo io, perché ero la più piccola. Avevo una pertica, perché
dei frutti ne abbiamo sempre avuto a casa nostra, andavano per tutti
’sti frutti e poi [li battevamo e recitavamo].
Carga vìn, carga tìn
che stasîra la Vècia vìn,
dal gran bén ch’at vói
più frûta che fói.

In
tutto il pomeriggio sperticavo tutti questi alberi. Mi dicevano:
“Va bén a sbattere i frutti, perché se non ci vai, non ti
mandiamo a casa la Vecchia! (18).
La più
importante documentazione intorno a riti e formule di fecondazione
degli alberi da frutto nel centese (comprendente anche testimonianze
di ex contadini originari della località ferrarese di Vigarano
Mainarda
e della campagna
bolognese di San Giovanni in Persiceto)
perviene da approfondite ricerche “dall’interno” di questo
territorio, compiute dalla demologa autodidatta Nerina
Vitali
. La
ricercatrice rilevò due diverse date di effettuazione della
battitura degli alberi da frutto, l’ultimo giorno dell’anno e la
vigilia dell’Epifania. Di pari valenza si rivelano pure il recupero
delle notizie sulle operazioni correlate alle viti (per la prima
volta oggetto di pubblicazione in questa area), nonché alla legatura
con il filo sia delle viti sia delle piante da frutto. Alcune formule
raccolte da Nerina Vitali contengono, inoltre, esplicite “minacce”
alla pianta che, se non avesse fruttificato in abbondanza come
richiesto, sarebbe stata fortemente bastonata l’anno successivo
(19) :

L’ultima notte dell’anno i miei
zii e amici, facevano il giro anche nelle vicine famiglie e giravano
intorno agli alberi da frutta (i bastoni venivano preparati prima)
dicendo:
Cârga vìn
per st’an ch vìn
s’ta n t cargarè
tańti bôt t ciaparè (20).

Poi
passavano a bastonare le viti dicendo:
Cârga cârga bat e bat
che ogni fôia fâga uń grap (21)

Queste le formule
per la legatura dell’albero da frutto, alla quale seguiva, a volte,
la battitura. Il filo, preparato con la stoppelina (lo scarto della
canapa), veniva filato dalle ragazzette:
Cârghet se t vu ster ché
se t an l cargarè
tanti bôt et ciaparê (22)

Frutto bel frutto
se st’an ta n iń farê
tanti bôt t ciaparê (23)

A bastunèń i frut
chi [ch’i] fâghen di bî fiûr
chi fâghen dal bèli mèil
che st’etr an a turnarèń (24)

Vècia vin
per st’an ch vin
pòrta un bel panîr
s t a na l purtarê
èter tanti t ciaparê (25)

S ti ń fê mo s t a niń fê
ètri tańti bastunê
stetr an t’ciaparê (26).

Questo
excursus si conclude con un testo raccolto nel bolognese, ad
Argelato,
centro di pianura
non distante dal centese, nelle cui campagne la pratica si svolgeva
il giorno dell’Epifania
e
aveva caratteristica quasi impetratoria e non in linea con le formule
precedenti. Il testimone, in fanciullezza, fu praticante del rito:
Il giorno della
Befana, il mattino presto, noi bambini maschi venivamo mandati in
campagna a fare delle domande, quasi delle invocazioni, perché i
prodotti delle campagne fossero abbondanti. Dicevamo, ad esempio,
avvicinandoci agli alberi di pero:
Préma Pasqua d’l’ân,
quânti pèir um dèt in st’ân?
[Prima Pasqua
dell’anno/quante pere mi dai quest’anno?]
E così
facevamo anche avvicinandoci ai meli (quânti mèil…),
alla vigna (quânta û…[uva])
e ai campi (quânt furmènt…[quanto
frumento]) (27)
Un modesto
contributo, questo, tuttora in fase di collazione, che fa tuttavia
comprendere la vastità e la complessità del patrimonio di cultura
orale del mondo agrario di tradizione.

 

Gian Paolo Borghi

** NB. Per esigenze  grafiche e di impaginazione di questo sito   in alcuni  casi  l’uso del corsivo e del grassetto è diverso rispetto a quello  del testo stampato nel libro da cui  è stato tratto. Anche le foto sono di nostra scelta. La redazione

NOTE

1) Sui primi risultati di questo lavoro di ricerca si rimanda a G.P.
Borghi, “Siamo stati gli ultimi a batterli”. Tracce del
culto degli alberi nei territori ferrarese e modenese,
in D. Biancardi, G.P. Borghi e R- Roda (a cura di), In
foresta. L’albero e il bosco fra natura e cultura,
Comune di Cento-Il Megalito di Tosi, Ferrara 1995, pp. 37-51. Il
presente lavoro ne costituisce un approfondimento, con l’integrazione
di materiali inediti. È stata rispettata la grafìa adottata da
ciascun ricercatore.

2) Cfr. G. Tassoni, Riflessi del culto degli alberi in
Lessinia, in “Terra Cimbra.
Vita delle comunità Cimbre”, XIX, 65, 1998, p. 77. La traduzione
letterale della formula da parte dello scrivente: “Carica, carica,
batti e batti/ogni favilla faccia un grappolo”.

3) G. Placucci, Usi e pregiudizi dei contadini delle Romagne
riprodotti sulla edizione originale per cura di Giuseppe Pitrè,
Pedone Lauriel, Palermo 1885, p. 102. Si tratta del secondo volume
delle “Curiosità popolari tradizionali” (la prima edizione del
libro di Placucci è del 1818).

4) Si veda, a tale proposito, tra gli altri, G.C. Bagli, Saggi
di studi su i proverbi, gli usi, i pregiudizi e la poesia popolare in
Romagna, in “Atti e Memorie
della R. Deputazione di Storia Patria per le Provincie di Romagna”,
s. III, 3-4 (1885-1886), rist. anast. Forni, Sala Bolognese 1977, p.
178. La legatura delle piante durante la Settimana Santa era in uso
anche in territorio parmense, come è attestato in M. Castelli
Zanzucchi, Farmacopea popolare nell’Appennino emiliano.
Erbe, tradizioni, curiosità,
Zara, Parma 1992, pp. 44-45.

5) G. Tassoni, Le inchieste napoleoniche nel regno italico.
Tradizioni popolari nel Dipartimento del Rubicone,
in “La Piè”, XXXVII, 1, 1968, p. 8. La traduzione della formula:
“Falla grossa e tienila stretta,/fa che a ottobre sia zeppa./La
grandine stia lontano/

6) P. Sbillot, Riti precristiani nel folklore europeo,
Xenia, Milano 1990, pp. 108-109. Lo Sébillot riporta pure notizie su
altri rituali italiani (abruzzesi, siciliani e modenesi). Questi
ultimi sono in seguito da me citati attraverso le fonti
bibliografiche originali, peraltro assai più ampie di quelle esposte
dallo studioso.

7) R. Bertani, Le antiche festività calendari ali del mondo
contadino, in “La Piva dal
Carner”, 7, 1980, pp. 4-5. Su altri rituali del fuoco i n area
emiliana si vedano, tra gli altri: G. Bedoni, Saggio
d’indagine sui fuochi rituali nel territorio modenese,
in Il mondo agrario tradizionale. Atti del 1° Convegno di
studi sul folklore padano. Modena 17-18 marzo 1962,
ENAL, Modena 1963, p. 66; M. Boccolari, L’inchiesta
napoleonica sulle costumanze del Reno,
in Il mondo agrario tradizionale,
p. 88; M. Campana, Due costumanze, uno scherzo ed una
leggenda, in “Corriere
Padano”, 14 febbraio 1931, p. 3. Ricordo altre cerimonie
propiziatorie privilegianti l’uso del fuoco come elemento
rinnovatore: Far lume a marzo,
Chiamare l’erba. Su
queste ultime si vedano rispettivamente: M. Corrain-P. Zampini,
Documenti etnografici e folkloristici nei Sinodi Diocesani
dell’Emilia-Romagna, in
“Palestra del Clero”, XXXXVIII, 1964, 15-16-17; R. Valota,
Chiamare l’erba. Rituali di propiziazione primaverile nel
Comasco e nel Nord Italia,
Cattaneo, Como 1991. Cito,
infine, il rituale del Battere (o
del Chiamare o del
Bruciare) marzo,
diffuso in area lombarda e triveneta (mantovano, veronese, padovano,
trevigiano, arco alpino dalla Carnia al Trentino ecc.) con il quale
si stimolava il risveglio della natura con la percussione di
qualsiasi oggetto e con l’accensione di fuochi. Esempi sonori
veneti e trentini sono depositati nell’Archivio dell’Associazione
Culturale “Soraimar” di Asolo (Treviso), consultabile anche on
line (alla voce Frastuoni
annuali, che riporta pure
richiami bibliografici). Un esempio lombardo è inciso nel disco I
protagonisti. Le mondine di Villa Garibaldi,
a cura di B. Pianta, Regione Lombardia (“Documenti della cultura
popolare”.3), Albatros, VPA 8231 RL, 1975 (LP).

8) P. Riccardi, Pregiudizi e superstizioni del popolo
modenese. Contribuzione del dott.- alla inchiesta intorno alle
superstizioni e ai pregiudizi esistenti in Italia,
Società Tipografica, Modena 1890; rist. anast. (con il titolo
Pregiudizi e superstizioni del popolo medenese),
Multigrafica, Roma 1969, p. 48.

9) B. Manicardi, Una cantilena augurale della bassa modenese,
in Folklore Modenese. Atti e Memorie del “1. Congresso
del Folklore Modenese” indetto dalla Deputazione di Storia Patria
per le Antiche Provincie Modenesi e dall’E.N.A.L. Provinciale di
Modena nei giorni 1-2 novembre 1958,
Aedes Muratoriana, Modena 1976 (rist. anast. dell’edizione del
1958), p. 138 (Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie
Modenesi – “Biblioteca”, Nuova Serie, n. 32).

10) Ibidem.

11) F. Barbieri-S. Salvarani,
San Prospero Secchia dalla preistoria ai giorni nostri, Comune
di San Prospero sulla Secchia, ivi 1981, p. 168. La traduzione
letterale della strofetta: Carica tia-tia-tia/di mele e di
‘meleria’/di pere e di mele/tutta la roba/che c’è al mondo/e
del grano nel granaio/che non ne possa mai mancare/e del fieno al
bovaro/e della ghianda per i maiali/carica-carica Stefanino [Santo
Stefano]”.

12 ) D. Bellodi, Proverbi,
detti, filastrocche, poesie ed altro in dialetto mirandolese,
Pivetti, Mirandola 1995, p. 97.
La consueta traduzione dello scrivente: “Cargatìa tia, tia/carica
bene Santo Stefano/pieni di peri, pieni di mele/e di tutta la oba che
c’è in questo mondo,/con la ghianda per il maiale/con del fieno
per il cavallino/e del grano nel granaio/che non ne possa mai
mancare”.

13) R. Vaccari, Tradizioni natalizie del modenese. Con aggiunta
di tradizioni tipiche di altre regioni d’Italia,
Modena Libri, Modena 1984, p. 64 (“Quaderni modenesi”. 16). La
traduzione italiana ivi pubblicata: “Cargatìa, cargatìa/fate un
gran carico, Santo Stefano/sia di pere che di mele,/tutti i beni
della terra/e di ghiande per il maialino/e del fieno per il
somarello/e del grano nel granaio/non possa mai mancare”.

14) I. Dignatici-L. Nora, La condizione contadina e
l’esperienza del sacro, Comune
di Carpi, ivi 1981, p. 10. Questa la traduzione operata dallo
scrivente: “Carica carica/Stefanino/carica di mele e di
meline/grappoli e grappolini/noci e nocine/carica la vecchia di buoni
tortellini.//Carica carica Santo Stefano/e di père e di mele/tutta
la roba che c’è in questo mondo/il grano nel granaio/le galline
nel pollaio/carica Santo Stefano.//Carica Stefanino/noci e
nocine/grappoli e grappolini/tutta la roba a questi bambini.//Carica
carica Stefanino/mele e pere e garofanini”.

15) M. Mondadori, Mi ricordo il giorno di Sant’Antonio…,
in “Piazza Verdi”, XV, 1, 2003, p. 3. La traduzione letterale è
dello scrivente: “Cargatìa cargatìa/una ‘navazza’
[contenitore per trasportare l’uva prima della vinificazione] piena
di tortelli/piena di mele/e [di] tutta la roba che c’è in questo
mondo/il fieno per il cavallino/la ghianda per il maiale/il grano nel
granaio/che non ne possa mai mancare”. La strofetta mi è stata in
seguito recitata dallo stesso Mario Mondadori (nato a Finale Emilia
nel 1923, ivi residente, appartenente al mondo rurale) durante un
incontro svoltosi a Finale Emilia il 5 gennaio 2004.

16) Cfr. G.P. Borghi (a cura di), Forme ed aspetti della
religiosità popolare nelle feste del ciclo dell’anno (da un
memoriale di Anita Alberghini Gallerani),
in R. Zagnoni, Vicende storiche della parrocchia di S.
Sebastiano di Renazzo della diocesi di Bologna in provincia di
Ferrara, Parrocchia di Renazzo,
ivi 1985, pp. 263-264

17) Testimonianza di Anita Alberghini Gallerani, nata a Renazzo di Cento
nel 1923, ivi residente, commerciante di origini contadine,
partecipante agraria (Renazzo, 19 dicembre 1983).

18) Testimonianza di Dolores Fallavena, nata a Renazzo-Malaffitto di
Cento nel 1898, ivi residente, ex contadina. Registrazione dello
scrivente, effettuata a Renazzo il 15 gennaio 1982. Ecco la
traduzione: “Carica vieni, carica tieni/che stasera la Vecchia
viene,/dal gran bene che ti voglio/[ti chiedo di produrre] più
frutta che foglie”. L’informatrice pronunciò la formula con tono
“solenne”.

19) Cfr. N. Vitali, Briciole dello sconfinato banchetto che è
la poesia folklorica raccolte nelle campagne centesi,
Comune di Cento-Cassa di Risparmio di Cento, Cento 1987, pp. 527-530.
La demologa effettua anche alcune interpretazioni avvalendosi, in
particolare, degli studi di vari antropologi, tra cui Ernesto de
Martino (Il mondo pagico. Prolegomeni a una storia del
magismo, Boringhieri, Torino
1973, pp. 137-138).

20) Ivi, 301.A,
p. 527. La traduzione (come anche le seguenti) è dell’autrice
delle ricerche: “Carica vieni/per
quest’annocheviene/senonticaricherai/tantebottetupiglierai”.
21)Ibidem.““Caricacarica/battiebatti/cheognifogliafacciaungrappolo”.
22)Ibidem,
301.B. “Caricati se
vuoi stare qui/se tu non ti caricherai/tante botte tu piglierai”
(la battitura seguiva la egatura, indi di procedeva alla recitazione
della formula).

23) Ivi, 301.C, p. 528.
“Frutto bel frutto/se quest’anno tu non ne farai/tante botte
prenderai” (legatura, formula e battitura).

24) Ivi, 301.D, p. 529..
“Noi bastoniamo i frutti/che loro facciano dei bei fiori/che
facciano delle belle mele/che quest’altr’anno noi torneremo”
(probabile la sola battitura, con la recita della formula).

25) Ibidem, 301.F. “Se
tu ne fai ma se tu non ne fai/altrettante bastonate/quest’altr’anno
tu piglierai” (tre colpi di battitura, indi legatura e recita
simultanea della formula).

26) Ivi,
301.E, p. 530. “Vecchia vieni/per quest’anno che viene/portane un
bel paniere/se tu non lo porterai/altrettante [bastonate] tu
piglierai” (bastonatura, legatura e contemporanea recita della
formula).

27)Testimonianza
di Gloriano Sorghini, nato nel 1925 ad Argelato, ivi residente, ex
contadino. Registrazione magnetofonica dello scrivente, realizzata ad
Argelato il 6 febbraio 2004.

G.P.B.

La foto  del filare di viti su olmi all’inizio dell’articolo è di Enrico Fiorentini

La foto della Vecia di paglia è tratta da Marefosca, in occasione del Rogo delle Befane 2013.