C’era una volta: “al sulfaner” (fabbricante o venditore di zolfanelli)

Lo zolfanèllo (o solfanèllo -più anticamente solfinèllo-) è un fiammifero di legno impregnato di zolfo per un tratto della sua parte superiore, al fine di fornire facile presa alla fiamma provocata dallo sfregamento della capocchia fosforica, precipuamente a base di sesquisolfuro di fosforo. Gli zolfanelli quindi sono da considerare i precursori degli attuali fiammiferi; nati probabilmente nel “basso medioevo”, questi bastoncini di legno, lunghi dai dieci ai quindici centimetri, si accendevano se strofinati sulla silice. Permettevano di appiccare il fuoco ai cosiddetti “stecchi” e successivamente alle fascine di legna che costituivano la base per i ceppi depositati sul focolare del camino. Oggi è ormai scomparso, sostituito dai più moderni fiammiferi. Il primo fiammifero nacque agli inizi dell’Ottocento a Parigi, dove venne brevettata un’asticella di legno, con la capocchia formata da una miscela di solfuro di antimonio, clorato di potassio, gomma e amido. Col passare degli anni la produzione di fiammiferi si perfezionò sempre più: dal fosforo bianco si passò al fosforo rosso, fino all’uso del sesquisolfuro di fosforo.

Sempre all’inizio dell’Ottocento, nel bolognese c’erano parecchi fabbricanti ed anche diversi venditori di zolfanelli che venivano chiamati nel gergo dialettale “i sulfanèr” (gli zolfanellai); quando l’industria iniziò a produrre i fiammiferi, l’uso degli zolfanelli conobbe una notevole flessione poiché quest’ultimi divennero “Monopolio di Stato”. Il contrabbando fu contrastato con il sequestro del prodotto, anche multando ed arrestando i cosiddetti “spacciatori”. Lo zolfanellaio dovette “riciclarsi” svolgendo un nuovo mestiere: ecco allora che cambiò totalmente attività, dedicandosi da quel momento alla raccolta di stracci, mobili vecchi, materiale ferroso, metalli di qualsiasi tipo, ossi di animali, cascami di ogni genere, pelli di coniglio e pelli di talpa, quest’ultime utilizzate per fabbricare pellicce da applicare sui colli dei cappotti. Però, per il popolino, rimase sempre “al sulfanèr”, anche se sarebbe stato più adatto chiamarlo con quei nuovi vocaboli che circolavano nell’alta società: il robivecchi, o più semplicemente lo straccivendolo, oppure, in modo ancor più raffinato, il rigattiere.

Nelle campagne, però, alcuni “contrabbandieri” continuarono l’attività di “zolfanellaio”, sfidando le nuove leggi emanate in materia; così gli zolfanelli venivano prodotti in modo clandestino per poi esser rivenduti sulle piazze cittadine o nei paesi, naturalmente ad un prezzo molto concorrenziale rispetto ai fiammiferi di nuova generazione. Anche a Malalbergo ci furono “fabbriche clandestine” di zolfanelli; gli alberi o gli arbusti da cui si ricavavano gli stecchini da intingere nello zolfo non mancavano certamente, come non mancava la polvere di zolfo in quanto era utilizzata soprattutto nelle risaie, mescolato al potassio, per formare una miscela esplosiva adatta a spaventare i passeri che “depredavano” le spighe del riso, rigogliose di chicchi. La miscela così ottenuta veniva fatta esplodere mediante un aggeggio rudimentale in ferro, che provocava uno scoppio simile a quello del fucile da caccia.

Nell’ottobre del 1841 la Direzione di Polizia della Città e Provincia di Bologna comunicava al Marchese senatore di Bologna di aver arrestato ed imprigionato un ragazzo, tal Clemente Picinelli, venditore abusivo di “zolfanelli fosforici”. Dodici giorni dopo un’altra comunicazione, partita sempre dallo stesso ufficio, informava il Marchese Senatore che in via Orefici i Carabinieri avevano arrestato un diciassettenne intento a “spacciare zolfanelli fosforici in onta alle vigenti leggi” ed era stato inviato subito alle carceri, a disposizione delle autorità.
Le “notificazioni” riguardanti il divieto di fabbricare gli zolfanelli fosforici arrivò anche al Priore del Comune di Malalbergo (probabile “sede” di una di queste fabbriche illegali); egli, in data ventinove ottobre, rispose che, nonostante le difficoltà dovute allo scarso personale, avrebbe informato i parroci delle frazioni del suo Comune, affinché pubblicizzassero tale notifica, riguardante le disposizioni inerenti la fabbricazione abusiva degli zolfanelli.
Per terminare queste brevi notizie sui fabbricanti di vecchi fiammiferi, ricordo due modi di dire dialettali, cari ai nostri nonni, che citano gli zolfanelli (1):
«Al pruvéve ad lughéras dentàr al bùs di sulfàn» (Cercava di nascondersi dentro al buco degli zolfanelli).
Si diceva di una persona che tentava di trovare un nascondiglio molto precario. Infatti quel piccolo ripostiglio, ricavato sul muro vicino alla cappa del camino e a portata di mano di una persona adulta, non era altro che un misero pertugio costituito da un coppo in cui, a malapena, stavano gli zolfanelli –o, come si diceva allora, “i solfanelli”– (2) .
«Al s’impéie còme un sulfanén» (Si accende come uno zolfanello).
Si diceva di persona che, durante una seppur minima discussione, veniva colta da un velocissimo attacco d’ira, una fiammata improvvisa che spesso durava per un breve lasso di tempo, come appunto la fiamma di un cerino.

NOTE
1 – Frasi scritte nel d
ialetto malalberghese, derivato dal dialetto bolognese della pianura orientale
2 – Il coppo curvo, il contenitore degli zolfanelli, veniva fissato al muro ad altezza d’uomo, con la parte più larga verso l’alto e la parte più stretta verso il basso, chiuso sul fondo da uno strato di calce. In questo modo si otteneva un perfetto recipiente, comodo e fuori dalla portata dei bambini.

FOTO

1) Il camino di una casa colonica nei primi anni del Novecento. Sulla sinistra si vede il contenitore degli zolfanelli (in dialetto “Al bùs di sulfàn”).
2)
La lettera, inviata al Marchese Senatore di Bologna, è firmata G. Rimondi, Priore di Malalbergo, in cui prende atto della “Notificazione del divieto di fabbricazione e smercio di fosfori”. Le tre missive furono scritte nell’ottobre 1841. (Archivio di Stato di Bologna, Anno 1841, Tit. 7°, Commercio. Rubr. 4a, Fabbriche e Manifatture).

Ricerca  e testo di Dino Chiarini