Pasta e fagioli. Storia e ricetta. Giulio Reggiani

A tavola in Emilia-Romagna. Pasta e fagioli.
Ricerca di Giulio Reggiani

Uno
dei piatti tipici delle zone fra bolognese e ferrarese
è senza dubbio la pasta cotta nel brodo di fagioli. Veniva chiamato
familiarmente pasta in fagioli e lo si poteva
mangiare assai spesso nelle case coloniche, sulle tavole di paesi e
città, oltre che nelle trattorie; anche le osterie, particolarmente
nell’Ottocento, lo proponevano ai loro avventori, ma lo si trovava
di frequente pure sulle tavole dei braccianti di queste zone, in
quanto costituiva una vivanda molto energetica: poi immancabilmente
gli s’inzuppava il pane e si andava così a costituire un
particolare piatto unico tipico di tutto quel mondo padano che
oggi va sotto il nome di civiltà contadina.
Rappresenta
tuttora una portata molto gradita nelle trattorie della nostra
pianura e pure i ristoranti più “sofisticati” propongono ai loro
clienti questo “primo piatto”, magari accoppiandolo a qualche
raffinato abbinamento da nouvelle cuisine (però, così
facendo, a mio avviso lo rovinano grandemente). Dobbiamo dire che
sulle nostre tavole lo si mangia assai raramente, perché la frenesia
della vita attuale non lascia il tempo materiale alla sua
preparazione; soltanto le massaie un po’ attempate o le nonne
“nostrane” possono ormai prepararlo con perizia: le giovani lo
prendono “già pronto” nei supermercati, in lattina o in busta,
ma queste “manipolazioni” non possono certo competere con la
fragranza ed il sapore della pasta in fagioli “fatta in casa”.
Andiamo ora a conoscer meglio i fagioli,
anche facendo due passi nella
storia.

Il fagiolo
Questa
pianta, che Linneo classificò scientificamente come Phaseolus
vulgaris, appartiene alla famiglia delle Fabacee (o
Leguminose) e tutte le fonti la segnalano come originaria
dell’America Centrale
fagiolini”). Le varietà del Phaseolus
sono veramente innumerevoli: fra le tante, citiamo soltanto le più
conosciute: il borlotto (con i suoi generi, detti
“Lingua di fuoco”, “Suprema” e “Di Vigevano”,
aventi tutti la variante “nana”), il cannellino
(che si differenzia in “Scaramanzin negrè” e “Lingot”),
il Corona di Spagna, il Romano Pole, il Maggiolino, l’Elegante,
assieme a moltissimi altri.
– Ma
diamo un’occhiata anche al più  famoso e ricercato fra quelli
nostrani.

Il ruviotto

Per
quanto riguarda le nostre zone, dobbiamo soffermarci su una variante
un po’ “sui generis” del borlotto, che dalle nostre parti era
assai diffuso fino al secondo dopoguerra (anche se oggi, a dir la
verità, è veramente quasi introvabile): il ruviotto. Questa varietÃ
si presentava con una forma abbastanza arrotondata, di color verde,
con una buccia assai sottile che ne favoriva l’uso soprattutto
nelle “passate”: infatti era adattissimo al brodo di fagioli in
quanto la buccia, se schiacciata, “passava” quasi tutta, senza
ostacolare così la completa spremitura. Dobbiamo anche ricordare che
il suo nome, “ruviotto”, sembra derivare direttamente dal nome
ferrarese del pisello che, in dialetto locale appunto, si chiama
ruvié; ma non è soltanto il vernacolo che sembra indirizzarci verso
questa spiegazione etimologica, bensì pure il colore: quest’analoga
colorazione lo fa assomigliare molto al pisello, così come
l’appartenenza di ambedue le piante alla stessa famiglia ne
certificherebbero la parentela.

– Vediamo
ora come lo consideravano in epoche antiche.

Il vigna

Essendo
una pianta americana, sorge spontanea questa domanda: «Ma durante
l’Età antica, oppure nel Medioevo, non si mangiavano fagioli»?
Ebbene sì, ma non erano quelli che mangiamo noi oggi. I legionari
dell’antica Roma mangiavano tutti i giorni una scodella molto
abbondante di cereali, ma spesso le affiancavano una buona zuppa di
verdure con dei fagioli
, particolarmente quando erigevano il loro
accampamento o il loro “castrum”; come tutti sanno, le
leguminose contengono parecchie proteine, che risultavano quindi
funzionali all’integrazione dietetica del soldato: infatti i
fagioli sono sempre stati soprannominati “la carne dei poveri”.
Nel mondo antico e medioevale non esisteva il fagiolo ”attuale”
(che come tutti sanno è stato importato in Europa in periodo
post-colombiano) bensì questo tipo, detto Vigna dal nome del
botanico Domenico Vigna, pisano, che ricoprì il ruolo di direttore
dell’Orto Botanico della sua città dal 1609 al 1632. Quella pianta
“antica”, di origine sub-sahariana, pur se
soppiantata da quella odierna, resiste ancora in parecchie sue
varietà, principalmente nelle aree tropicali e subtropicali
dell’emisfero boreale, praticamente dall’Iran all’India,
dall’Indocina al Giappone; i fagioli indiani, nelle due
varianti vigna mungo (neri) e vigna radiata (verdi), si
presentano con baccelli più stretti e più lunghi rispetto ai
nostri, ma con semi più piccoli e più tozzi. Spesso vengono
decorticati ed allora si presentano bianchi.

Ecco
la ricetta di una volta Pasta in fagioli nostrana

Apprestiamoci
quindi ad esaminare la ricetta, così come la si preparava nelle
nostre campagne.

Ingredienti
per 4 persone

Pasta
all’uovo,
possibilmente fatta in casa, con sfoglia non
troppo sottile (qui, però, non ne trascriveremo la ricetta, essendo
ben conosciuta).

Brodo
di fagioli

400
g. di fagioli borlotti secchi

Una
patata media;    Mezza
cipolla;   50
g. di pancetta arrotolata;  2
cucchiai di olio;

2
cucchiai di concentrato di pomodoro , parmigiano-reggiano grattugiato;

Sale
e pepe; 6 litri di acqua.

Preparazione

Mettere
i fagioli secchi a bagno in acqua fredda per 12 ore e, tolti
dall’ammollo, gettarli in una pentola grande con un cucchiaio di
sale e con la patata pelata; riempire la pentola con 6 litri d’acqua,
metterla sul fuoco fino ad ebollizione, poi abbassare la fiamma e far
cuocere a fuoco moderato per circa 2 ore e mezza. A parte, preparare
un soffritto con olio, cipolla tagliata fine e pancetta battuta,
facendo rosolare il tutto; aggiungere poi il concentrato di pomodoro
ed un mestolo di brodo, lasciando cuocere per circa mezz’ora a
fuoco moderato. A cottura avvenuta, togliere metà dei fagioli dal
loro brodo e, assieme alla patata, metterli in uno scolapasta e
schiacciarli nel brodo stesso, aggiungendo in seguito il soffritto;
far cuocere tutto per altri 30 minuti ed il “brodo di fagioli” è
pronto per cuocervi la pasta.

Un
piatto nostrano, ma anche italiano. Pasta
e fagioli (anche con le cotiche)

Questo
piatto non è solamente “locale” o “padano”, ma è pure una
classica portata italiana; lo ritroviamo infatti in quasi tutte le
regioni, sia settentrionali che centrali che meridionali; potremmo
escludere soltanto quelle con clima molto caldo: infatti non si può
dire che sia molto adatto alla stagione estiva, soprattutto per il
suo alto valore calorico. Il più famoso fra tutti questi piatti
regionali è certamente quello “romano”, che trae origine dalle
zone montuose del Lazio e che possiamo collocare cronologicamente
come tipica minestra ottocentesca capitolina. Questo “primo”,
assai sostanzioso, lo si può ritrovare oggi in svariate trattorie
romane (anche molto “trend”), che lo hanno riportato in auge con
grandi risultati; esso, però, presuppone categoricamente una
variante, costituita da un’aggiunta altrettanto energetica: le
cotiche di maiale, le quali d’altronde conferiscono a questa
portata un sapore ancor più vigoroso ed intenso.

Tale
arricchimento, così sostanzioso, è da considerarsi anche un piatto
“padano” perché pure qui rappresenta una tradizione secolare ed
inoltre in tutte le regioni dell’Italia settentrionale era
presente, e lo è ancora, la cosiddetta “cultura del maiale”: non
per nulla i prosciutti più famosi sono quelli emiliani e veneti
(citerò per tutti il Parma -con la sua vera gemma, il Langhirano- ed
il San Daniele, che in realtà è friulano, ma facente parte
storicamente delle “Tre Venezie”).

Bisogna
anche evidenziare che le nostre massaie erano solite adottare spesso
una variante alla preparazione del brodo, aggiungendo un gambo di
sedano, o una carota, oppure una zucchina. Inoltre la pasta che di
solito si cuoceva nel brodo erano i maltagliati (mél-tajé, in
dialetto bolognese) una tipica sfoglia bolognese che, come dice
chiaramente il nome, era tagliata senza simmetria perché molto
spesso era costituita dalle parti rimanenti ed anche marginali delle
tagliatelle. Nel ferrarese, i maltagliati avevano un altro nome che,
a mio avviso, era molto più appropriato ed anche assai figurativo:
si chiamavano infatti sguàza barbùz, con chiara allusione al fatto
che, con un tipo di pasta così irregolare (la quale veniva mangiata
sempre in brodo) “per forza” la barba si doveva bagnare. Ma
vorrei aggiungere un’altra cosa molto importante: a volte, in
alternativa alle cotiche, la massaia metteva un pezzo del cosiddetto
“gambuccio di prosciutto”, che poi veniva tolto e mangiato a
parte.

E
per terminare … il dialetto Al
valzer di fasù (Il valzer dei fagioli)

Nei
“tempi andati”, al tempo della cosiddetta “civiltà contadina”
(vale a dire prima della seconda guerra mondiale) nelle campagne del
bolognese si parlava quasi esclusivamente in dialetto. Nelle case
coloniche si andava “a treppo” (1) durante le fredde
serate d’inverno e nelle stalle risuonavano di frequente canzoncine
e motivetti, non sempre però accompagnate dalla musica. Nelle
conversazioni, assai spesso gli argomenti delle chiacchiere che si
facevano in compagnia riguardavano pietanze, minestre, dolci,
leccornìe o comunque “roba da mangiare”. Era anche di gran moda
“Al valzer di fasù”, che veniva cantato, anche senza l’ausilio
di strumenti, sul motivo del “Valzer del buonumore” (2).
Mio nonno me ne canticchiava sovente una strofa, che io ricordo
ancora e che recitava così:

«E
questo è il valzer del buon menu / riso patet e fasù, /

ch’in
màgna un piàt e ch’in magna dù / l’è sémpar mnéstr’in
fasù».

Credo
che non ci sia bisogno della traduzione in lingua italiana.

Giulio
Reggiani

Note

(1)
L’altro termine usato in alternativa al “treppo” era
“filò”. Le due denominazioni erano equivalenti: soltanto
le zone d’appartenenza determinavano l’utilizzo di una parola
piuttosto che dell’altra.

(2)
Sulla genesi di questo valzer esistono due versioni contrastanti; la
prima, d’estrazione più “nobile”, si rifà ai valzer viennesi
dell’Ottocento e precisamente a Johannes Strauss junior: il
riferimento è il valzer in stile “ländler” denominato
Immer Heiterer (Sempre di buon umore)Il
valzer del buonumore, con autori Di Lazzaro-Dole. La
sostituzione di Buon umore con Buon menù era d’obbligo,
trattandosi di “celebrare” la minestra di fagioli, però con un
pizzico d’ironia.