C’era una volta…” La navigazione sul Reno”. Franco Ardizzoni

La navigazione sul Reno nel Medioevo.
Saggio di Franco Ardizzoni in “al sÃs” , rivista periodica edita dal Gruppo di Studi “10 righe” e dal Comune di Sasso Marconi. n. 10 /2004
Dove e quando
Un diploma di Berengario I
re d’Italia, databile fra l’anno 898 ed il 905 (IX-X secolo)
concede al vescovo ed alla Chiesa di Bologna il porto delle navi sul
Reno presso il mercato della Selva Piscariola (1)
Dove si trovasse esattamente questo porto sul Reno – scrive Ivan Pini-  e il
mercato della selva Piscariola, non è possibile stabilirlo con
esattezza così come non è neppure da escludere a priori
che il porto ed il mercato fossero localizzati in sedi diverse.
Comunque si può fare solo l’ipotesi che il porto in
questione (ed eventualmente il mercato) si trovassero al
limite della navigabilità  del fiume Reno
, cioè poco
a nord del ponte della via Emilia (2)
Ma questo approdo di
navi, dice Alfeo Giacomelli, più che l’indice di
navigabilità  del fiume, probabilmente indicava semplicemente
la presenza di barche passatorie. (3)
Ad ogni modo, qualunque fosse la realtà più
vicina alle diverse ipotesi, il diploma di Berengario I indica
abbastanza chiaramente che il Reno si poteva navigare dai pressi di
Bologna verso la bassa pianura a nord e permetteva di raggiungere il
mare Adriatico. Probabilmente,
trattandosi di un fiume a carattere
torrentizio, alimentato da piogge stagionali e non da nevi e
ghiacciai come i fiumi alpini affluenti di sinistra del Po, la
navigazione non era possibile per tutto il tempo dell’anno. Anche
se in quei tempi (prima del Mille) il fiume aveva una portata d’acqua
certamente superiore a quella dei secoli successivi, quando spesso le
sue acque venivano deviate per azionare mulini e opifici o peggio,
come nei tempi moderni, venivano imbrigliate con dighe e sbarramenti
di ogni genere che le sottraevano al flusso normale del fiume,
comunque nei mesi estivi e siccitosi, allora come oggi, il Reno
andava in secca per cui la navigazione non era possibile, se non per
brevi tratti.
Notizie di utilizzo del
fiume come mezzo di trasporto le abbiamo anche per il periodo
etrusco, cioè circa 2500 anni fa. Sappiamo che gli Etruschi,
provenienti dall’alto Lazio e dalla Toscana (chiamata Etruria dalla
loro presenza) valicavano l’Appennino e giungevano a Misa
(l’attuale Marzabotto), dove esisteva un consistente insediamento,
proseguivano verso Felsina (Bologna) e, tramite il fiume Reno che nei
pressi di Voghenza si immetteva in un ramo del Po (detto appunto
Spinetico), raggiungevano la città adriatica di Spina da dove
navigavano il mare Adriatico verso i mercati orientali (4).

Il geografo e storico greco Scilace (VI-V secolo a.C.) riferisce come
si potesse andare dal porto di Spina, sull’Adriatico, a quello di
Pisa, sul Tirreno, con un viaggio di tre giornate. Anche se pare
improbabile che si potessero coprire 80 chilometri al giorno, la
notizia viene confermata da un articolo apparso nel mese di agosto
2004 sul “Venerdì” del quotidiano La Repubblica dal
titolo: “Finalmente una strada che non porta a Roma”.
Nell’articolo Alex Saragosa (questo il nome dell’autore) narra,
con tanto di documentazione fotografica, come a Casa del Lupo, a
sud.est di Lucca, sia stata scoperta, sotto reperti di epoca romana,
una strada lastricata, larga ben sette metri, segnata in più
punti da solchi lasciati dalle ruote dei carri, che gli archeologi
hanno datato intorno al 550 a.C. in forza di frammenti di ceramiche
etrusche trovati sotto le pietre superiori del lastricato. Dopo aver
scoperto duecento metri di detta strada, che corre da ovest verso
est, seguendo parallelamente la non distante autostrada Firenze mare,
gli archeologi hanno stabilito trattarsi di un’arteria che gli
Etruschi avevano costruito per collegare il porto di Pisa, attraverso
Gonfienti, (una città etrusca vicino a Prato) Marzabotto e
Bologna per raggiungere Spina allo scopo di commercializzare nelle
zone adriatiche, il loro prodotto più prezioso, cioè il
ferro estratto all’isola d’Elba. A Marzabotto sono stati
rinvenuti residui di lavorazione ferrosa, ma anche a Maccaretolo,
circa 24 chilometri a nord di Bologna, dove il fiume Reno transitava
in epoca romana ed anche in qualche secolo precedente, in seguito a
scavi condotti dall’autunno 2000 alla primavera 2001, finalizzati
all’ esplorazione di un’area di oltre 5 ettari dove è
stato localizzato un Pagus romano risalente al periodo
compreso fra il II-I secolo a.C. ed il I-III d.C., sotto lo strato
romano, posto a circa metri 1,80-2,00 dall’attuale piano di
campagna, sono stati trovati (ad una profondità di oltre 2 m)
consistenti residui della lavorazione del ferro, che gli studiosi
attribuiscono di provenienza dai giacimenti dell’Elba. ( 5)

Quindi nel tratto di bassa
pianura il Reno veniva abitualmente navigato per raggiungere
l’Adriatico
( il disegno accanto ritrae però il canale Navile, pure navigabile, presso Malalbergo.)
Nel senso contrario, cioè¨ verso la sorgente, il
fiume veniva percorso dalla strada di fondovalle che da sempre
percorreva la sua riva sinistra (ma che, giunta al Sasso, a causa
dalla rupe che dà il nome alla località, il transito
diventava difficoltoso per cui era necessario o il guado per portarsi
sull’altra sponda, più alta e quindi maggiormente difficile,
oppure la risalita verso le strade di cresta per Jano, Lagune,
Medelana, Luminasio, Montasico. ( 6) .
Aggiunge
Giacomelli che gli Etruschi, per valicare l’Appennino e raggiungere
l’Etruria, non sceglievano il passaggio più facile verso la
sorgente del Reno (che nasce a Prunetta, in provincia di Pistoia, ad
una altitudine di 1130 metri) in quanto la zona pistoiese era allora
paludosa e poco praticabile, per cui da Marzabotto puntavano verso
Baragazza (toccando probabilmente Montacuto Ragazza dove pure sono
stati rinvenuti reperti etruschi) e si dirigevano verso Fiesole,
Arezzo, Chiusi, Populonia e l’Elba. 

Dopo gli Etruschi anche i
Romani hanno continuato a servirsi della via d’cqua offerta dal
Reno. Infatti, tornando agli scavi effettuati a Maccaretolo nel
2000-2001 gli studiosi hanno stabilito che quì il Reno
descriveva un ‘ansa verso est a cui era collegato un tratto di
canale artificiale con tanto di argini che si suppone servisse per il
carico e lo scarico delle navi. Le pietre di cui erano
costituiti i monumenti funerari venuti alla luce dall’inizio del
Cinquecento fino al 1988 (anno in cui è stato rinvenuto il  sarcofago di Titus
Attius e di Rubria Semne, sua moglie) sono di provenienza
dalle cave dell’Istria e dalle colline veronesi, e venivano
trasportati per mare fino alla foce del Po, di quì i natanti
risalivano il fiume fino a Vicus Habentia (Voghenza) che
sembra prendesse il nome da Avenza (o Aventia) antica denominazione
del Reno (7), quindi si dirigevano, sempre per
via d’acqua, verso Bononia transitando per Maccaretolo, dove
esisteva un vastissimo insediamento posto a diciotto miglia da
Bonomia, la quale era collegata a Maccaretolo, oltre che dal
fiume, anche da una strada posta sulla riva destra del Reno.(8)

Dopo il Diploma di re Berengario I, altri ne sono
stati proclamati da papi ed imperatori. Con la bolla di papa
Gregorio VII del 23 marzo 1074, giuntaci solo in copia
quattrocentesca (se non proprio un falso è certamente
largamente interpolata, scrive Ivan Pini), ma ciò non toglie
che la sua descrizione rifletta una situazione sostanzialmente
esatta, conferma al vescovo bolognese non uno ma ben tre porti: Il
porto di Galliana, il porto situato in fundo Petriculo e il
porto di Milione.

Nella bolla di
Pasquale II del 1144, in parte diversa dalla precedente, si nominano
ancora i porti di Galliana e della corte di Milione, ma non quello
del monastero di S. Anastasio in fundo Petriculo mentre tutti e
tre i porti ricompaiono nelle successive bolle di Lucio II ( il
bolognese Gerarado Caccianemici) del 1144 e di Alessandro III del
1169. Nessuno dei tre porti appare invece presente nel diploma
autentico concesso al vescovo di Bologna Enrico dall’Imperatore
Federico II nel dicembre 1220. In questo diploma appare invece
concesso al vescovo bolognese il porto di Siveratico.

Fra i 5 porti
menzionati tra X e XIII secolo come appartenenti al vescovo di
Bologna da fonti ufficiali (le quattro tarde e interpolate bolle
pontificie e i due autentici diplomi imperiali, l’unico facilmente
individuabile è il porto di Siveratico. Questa localitÃ
si trovava infatti nella pieve di S. Vincenzo e quindi nella zona di
Galliera, nella stessa zona cioè dove si situava
presumibilmente un porto già in età romana. E’
probabile dunque che il portum qui fuit catabulum navium di cui
parla il diploma di Berengario del 905 sia da intendersi appunto come
il vecchio porto romano di Galliera, già abbandonato e
poi ripristinato dal vescovo di Bologna con un nuovo porto in seguito
detto porto di Siveratico.

Sempre a questo porto potrebbe poi
anche riferirsi il portum in fundo Petriculo appartenente al
monastero di S. Anastasio. Per la verità del tutto ignota è
non solo la località corrispondente al fundo Petriculo,
ma addirittura il luogo dove si situava il monastero vescovile di S.
Anastasio, il quale, pur apparendo documentato nelle sopracitate
bolle del 1074, 1144 e 1169 non risulta da alcun’altra fonte coeva
e scompare poi del tutto dalla documentazione bolognese. Poichè
la menzione di questo porto era del resto già assente nella
bolla di Pasquale II del 1114 si è portati a pensare che esso
sia scomparso molto per tempo, forse perchè situato in zona
soggetta a rapide mutazioni idrogeologiche come lo fu appunto, nel
corso del XII secolo, la bassa pianura bolognese. A collocare il
monastero, poi scomparso, di S. Anastasio e quindi il suo porto
situato in fundo Petriculo nella zona di Galliera  nella
stessa zona cioè¨, se non proprio nella stessa località ,
dove un tempo c’era stato il porto fluviale d’età romana,
poi il catabulum navium e ci sarà in seguito il porto di
Siveratico – siamo indotti anche dal fatto che la parrocchia che
sostituì l’antica pieve dedicata a S. Vincenzo risulta
intitolata (ma non sapremmo dire da quando
) ai SS. Vincenzo e Atanasio.

Individuato così nella zona
di Galliera il porto fluviale sul Reno definito dal diploma imperiale
del 905 come catabulum navium, nel diploma federiciano del 1220
portum Siviratici e, forse nelle bolle pontificie del
1074, 1144 e 1169 come situato in fundo Petriculo, ci resta ora
da vedere dove potessero trovarsi i due porti di Galliana e in
curte Milionis.

Su questo secondo
porto nessuno ha mai scritto nulla, mentre sul porto di Galliana le
ipotesi di identificazione sinora formulate appaiono fra loro molto
diverse.(9)

Fin qui il testo di Antonio Ivan Pini, che
ho preferito riportare integralmente per non modificarne l’efficacia.

Il Reno nei pressi del ponte di
Vizzano, a poca distanza da Palazzo de Rossi. Da notare i numerosi
banchi di rocce che ne coprono il corso. (foto F. Ardizzoni)

Tornando al porto di
Galliana il Pini dice che lo Schaube (10) lo
identificò con quello situato “in silva qui dicitur
Piscariola” del diploma di Berengario I dell’anno 905. La
maggior parte degli storici ha ritenuto e ritiene che il porto di
Galliana dovesse invece trovarsi sul torrente Gaiana, ma considerando
che la Gaiana è un torrente di modestissima portata che
s’immette nel torrente Quaderna che a sua volta s’immette nel
fiume Idice, è impensabile che detta Gaiana fosse un corso di
gran portata d’acqua neppure in età medievale, tanto più
che nasce da un colle non molto a sud della via Emilia ad una altezza
di poco superiore ai 500 metri.

Se non dunque sul
torrente Gaiana, dove poteva trovarsi il portus qui cognominatur
Galliana? In base a tre documenti reperiti nel fondo archivistico
del monastero di S. Giovanni in Monte, dove si parla di alcune
tornature di terra poste in Marano, nel fondo Maseretola, fra i cui
confini è indicato che a meridie est navigium, Ivan Pini
ritiene di individuare e di collocare questo porto Galliana in
Marano di Gaggio Montano. Egli stesso però aggiunge: Ma
ha senso, – c’è da chiedersi – pensare ad un canale
navigabile (tale è il navigium) e ad un eventuale porto
fluviale destinato a servire Bologna in piena zona di montagna?
L’autore si risponde da solo considerando che Marano si trova in un
fondovalle a 276 metri sul livello del mare. Casalecchio, che è
il punto in cui il Reno sfocia in pianura, è a 60 metri.
Dunque il dislivello fra le due località è di appena
(?) 216 metri per un percorso di circa 40 km ed una pendenza
media inferiore allo 0,6%, una pendenza che non escluderebbe affatto
una navigazione fluviale (scrive sempre Pini) non solo
in discesa, ma anche, eventualmente, in risalita soprattutto se
aiutata, nei tratti di maggior pendenza, con dei tratti di canali
navigabili.

Sinceramente queste deduzioni e
considerazioni mi hanno lasciato molto perplesso.
Soprattutto
considerando l’autorevolezza ed il valore dell’autore. Il prof.
Antonio Ivan Pini (purtroppo scomparso nel febbraio 2003), pur
originario di Sassuolo (Modena) era cittadino di Bologna dal 1956.
Prima come studente universitario (fu allievo di Gina Fasoli) e poi
come docente di storia medievale, di cui era appassionato studioso.
Ha lasciato un patrimonio di scritti e di pubblicazioni. E’ stato
degnissimamente commemorato da Mario Fanti in Strenna Storica 2003.

Mi sono personalmente
recato a Marano di Gaggio Montano (v. foto) ed in altre localitÃ
comprese nei 40 km presi in considerazione dallo studioso, e ho
scattato alcune fotografie, che quì propongo al lettore. La
mia perplessità è rimasta. Nei punti cosiddetti
pianeggianti del Reno quando la corrente è debole l’acqua è
troppo bassa per poter navigare. Se l’acqua è più
alta anche la corrente aumenta e a mio parere è difficile
governare una barca con merci a bordo non solo in risalita, ma anche
nella discesa (a meno che si tratti di una canoa, ma in quel caso non
c’è posto a bordo per le merci, oltre al navigatore). Negli
altri punti del fiume la presenza di rocce sporgenti dalle rive e di
massi depositati sull’alveo rende la navigazione difficoltosa e
pericolosa.

Per quanto invece
riguarda il porto romano di Galliera che il prof. Pini cita
riferendosi a teorie ed ipotesi formulate nell’Ottocento da
Francesco Rocchi (che furono a suo tempo contestate da Alfonso
Rubbiani) e basate sul reimpiego di reperti romani nella chiesa di
Galliera ed in quella di Massumatico, in seguito a ricerche da me
personalmente condotte in proposito posso affermare che purtroppo non
sono state rinvenute prove concrete che dimostrino l’esistenza di
un porto romano nel territorio di Galliera.
Infatti i reperti
reimpiegati nelle suddette chiese non possono essere stati rinvenuti
nella zona di Galliera in quanto il territorio romano di quella zona
è coperto da uno strato alluvionale del Reno di almeno 7-8
metri (11) per cui è praticamente
impossibile rintracciare qualsiasi reperto o qualsiasi struttura.
Durante i lavori di costruzione del canale Emiliano Romagnolo (anni
1950-60), nel punto in cui il canale sottopassa il Reno venne alla
luce un filare di alberi alla profondità, appunto, di circa 8
metri (12). E’ invece provato (come detto in
precedenza), dai recenti scavi, che un porto fluviale romano (o
semplicemente un attracco) esisteva presso Maccaretolo (comune di S.
Pietro in Casale) (13), circa tre km a sud
dell’antica località di Siveratico, ed i reperti trovati
nelle chiese di cui sopra quasi sicuramente provenivano dallo stesso
Maccaretolo (14) dove il piano di calpestio
romano si trova a circa 1,80-2,00 metri da quello attuale. L’antica
località di Siveratico corrisponde all’incirca all’attuale
S. Prospero (situato al confine con il comune di Poggio Renatico), in
parrocchia di S. Vincenzo di Galliera, ed è citata dal diploma
dell’imperatore Federico II del dicembre 1220, cioè più
di mille anni dopo il periodo romano
per cui è, in ogni
caso, difficile da collegare al presunto porto romano di Galliera. 

Un diploma dell’anno 1116,
dell’imperatore Enrico V, concedeva ai Bolognesi, oltre ad altri
privilegi, quello di navigare e commerciare liberamente sul fiume
Reno ordinando altresì che lungo il suo corso non venissero
costruiti altri mulini per non ostacolare la navigazione.
Sappiamo da diversi autori del
trasporto di legnami dai boschi dell’alto Appennino alla chiusa di
Casalecchio col sistema della fluitazione.
Il legname da fuoco e da
lavoro, scrive Paolo Guidotti (15) , tagliato in
tutto l’arco appenninico, ma specialmente in quello belvederiano, e
ridotto con seghe ad acqua in tavole lunghe anche dieci metri e
trasportato a strascico o su muli nelle acque del Reno e suoi
affluenti, era una necessità vitale per la città che
doveva costruire i suoi ponti, molte parti essenziali alle sue
fortezze, case, chiese, conventi…

Fotografo Associazione Amici delle Vie d’Acqua e dei Sotterranei di Bologna

La chiusa di Casalecchio.
Qui si fermavano i legnami
provenienti dall’alto Appennino che navigavano per fluitazione e da
qui parte il Canale di Reno che porta l’acqua in città
e che alimenta il Navile. (

Questo trasporto già  pochi decenni dopo la
costruzione della Chiusa di Casalecchio (stazione di arrivo di questo
legname fluitato), e’ documentato da uno statuto del 1252 che
ordina di tenere sgombero il corso superiore del Reno (tra Vergato e
la pieve di Calvenzano) e che i macigni che sono nel Reno siano
infranti e tolti.

Il governo di Bologna,
già dal Duecento, concede questo trasporto a società o
compagnie bolognesi di conductores legnaminis (con presenze
bresciane e venete) che favorisce con facilitazioni fiscali e
particolari protezioni giudiziarie.

Erano compagnie con
grossi capitali, necessari per pagare il taglio degli alberi sulle
cime dell’Appennino, per il trasporto a strascico o a soma di mulo
alle sponde dei fiumi del legname ricavato, la sua immissione nelle
acque quando non fossero troppo basse o troppo alte, per pagare i
superstantes, i <zatterieri> che dovevano sorvegliarlo
per tutto il suo tragitto, tenerlo sul filo della corrente con lunghe
pertiche con ferro a punta o a roncola all’estremità,
liberarlo dai vari incagliamenti, salvarlo dai ladri…(16)

Per questo trasporto
erano state utilizzate, almeno nel Trecento, anche le acque di un
bacino idrografico diverso da quello del Reno, quelle del Dardagna
(che normalmente confluiscono nello Scoltenna-Panaro), fatte affluire
lungo una galleria artificiale in quelle del Rio Sasso e da questo in
quelle del Silla, il quale è un affluente di sinistra del
Reno. Sembra che il villaggio di Poggiolforato, che si trova su di un
terrazzo presso il fondovalle, a metri 863 di livello, abbia preso il
nome dalla galleria o traforo con cui la montagna fu <forata>
per far defluire le acque del Dardagna nel Rio Sasso (17).

 Nel 1208 il comune di Bologna finalmente riuscì
a dare una svolta decisiva al problema della navigazione acquistando
dal consorzio dei Ramisani il loro vecchio canale di Reno (che
portava l’acqua in città azionando, lungo il suo percorso,
mulini da grano, gualchiere, battiferro, tintorie, ecc.) ed
impostando la realizzazione del Naviglio (o Navile) su un antico
alveo del Savena, perfezionandolo poi con successive escavazioni per
portarlo all’imbocco con il Po di Primaro e quindi con il mare
Adriatico. La realizzazione del Naviglio è parallela allo
sviluppo della rivoluzione artigiano-popolare, alla liberazione dei
servi, alle leggi antimagnatizie, allargando gli orizzonti anche
politici e militari della città, oltre a quelli commerciali.
(18).

Da ricordare, per concludere, la vittoria dei
marinai bolognesi sui veneziani in una battaglia navale
avvenuta nel 1271 alle foci del Po di Primaro, per la libera
navigazione sul fiume ed in Adriatico, poichè la Repubblica di
Venezia voleva imporre il pagamento di un pedaggio alle “navi”
bolognesi che, da quel momento, poterono invece navigare liberamente.

 

 

Una “nave” in uso sul Navile a Bentivoglio, trainata controcorrente da cavalli. cartolina 1906

 

 Note bibliografiche

(1) M. FANTI, Le vie di Bologna,
saggio di toponomastica storica.Vol. II pag. 721. Istituto per la
storia di Bologna 2000.

(2) A.I. PINI, I porti fluviali di
Bologna. In “La pianura e le acque tra Bologna e Ferrara”
pag. 279. Atti del convegno di studi. Centro studi Girolamo
Baruffaldi. Cento 1983.

(3) A. GIACOMELLI, Ambienti
naturali e società umane lungo il corso del Reno. Quadri
originari ed evoluzione storica pag. 32 Centro stampa Provincia di
Bologna 1997.

(4) G. UGGERI, Habitat e
popolamento di età classica nella Padania orientale. In
“La pianura e le acque tra Bologna e Ferrara” pag. 152……..op.
cit.

(5) G. GASPAROTTO, Dati
preliminari sulle scorie di fusione ferrifere di età Romana di
Maccaretolo. In “Maccaretolo un pagus romano della
pianura”, a cura di Stefano Cremonini, pag. 222. Presso la
deputazione di Storia Patria. Bologna 2003.

(6) A. GIACOMELLI. Ambienti
naturali e società umane………op. cit. pag.24

(7) O. BACILIERI, Storia
archeologica di Voghenza e del suo territorio, pag.36. Edizioni
Arstudio C Ferrara. 1994.

(8) D. RIGATO, La documentazione
epigrafica nella pianura nord di Bologna. In “Maccaretolo un
pagus romano della pianura” op. cit.

(9) A.I. PINI, I porti fluviali di
Bologna. In La pianura e le acque…….op. cit. pagg. 279-280.

(10) A. SCHAUBE, Storia del
commercio dei popoli latini del Mediterraneo sino alla fine delle
Crociate. Torino 1915. pag. 91.

(11) G. BOTTAZZI, Maccaretolo di
S. Pietro in Casale. Dall’agglomerato romano agli insediamenti
medievali. In “Maccaretolo un pagus romano della
pianura” op. cit. pp. 135-136.

(12) Cfr F. ARDIZZONI in “Galliera
Antica” pag. 18. Siaca Arti Grafiche. Cento 2001.

(13) G. BOTTAZZI, Maccaretolo di
S. Pietro in Casale, op. cit. pag. 116

(14) D. RIGATO, La documentazione
epigrafica nella pianura nord di Bologna, op. cit. pag. 256

(15) P. GUIDOTTI, Nel Medioevo
<fiume non è, ma grande strada>. In “Il Reno
Italiano: storia di un fiume” a cura di Renzo Renzi pag. 55.
Bologna 1989.

(16) P. GUIDOTTI, Nel Medioevo
<fiume non è, ma grande strada> op. cit. pag. 56

(17) E. CAVICCHI, Il fiume Reno,
storia e percorso dall’Appennino all’Adriatico, a cura di
Oriano Tassinari Clò., pag. 40.Edizioni Luigi Parma Bologna
1989.

(18) A. GIACOMELLI, Ambienti
naturali e società umane…….op. cit. pag. 28.