Antichi mestieri nella “civiltà  contadina” . Giulio Reggiani

A POGGIO RENATICO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO. ANTICHI MESTIERI
Vo
rrei
qui proporre ai nostri lettori un breve excursus su alcuni di
quei mestieri che ora non esistono più; il termine antichi che
ho usato nel titolo non si riferisce naturalmente alla cronologica
 antica ma a quel modo di dire comune che tende a far
riferimento a cose o avvenimenti passati da parecchio tempo. In
questo caso il legame è con la cosiddetta
civiltà contadina,
che si esaurì solo negli anni ’50 e ’60 del XX secolo; ma la
trasformazione della società italiana da agricola ad industriale
investì  non soltanto le città, sia grandi che piccole, ma pure i
nostri cosiddetti paesi di campagna, incidendo in modo assai
profondo sul tessuto costitutivo dell’economia nazionale,
particolarmente dalla seconda metà  del Novecento fino ad oggi.

Ci
sono ancora innumerevoli persone che ricordano tanti mestieri e tanti
lavori oramai non più in uso, o, come si suol dire, superati dai
tempi; esse ricordano pure numerosissimi personaggi particolari,
che in gioventù praticarono per tanto tempo quelle attività. Cesare
Manservigi, in svariati suoi racconti, ci ha tratteggiato alcune di
quelle persone che sono rimaste scolpite nella memoria di tutti i
Poggesi, ma che, a quei tempi, si potevano pure rintracciare in tanti
altri paesi della cosiddetta bassa.
Tuttavia
si può affermare che restano  ancor oggi alcuni mestieri legati
alla bottega ed alla vita di paese, ma hanno assunto nomi moderni,
che si rifanno alle lingue straniere, forse per un cattivo gusto
corrente di esasperata esterofilia: il
barbiere
 oggi il
coiffeur,
oppure
con termine più sofisticato il
friseur,
(dal francese
friser
= arricciare
)
parola di conio recentissimo, la quale ci ricorda inequivocabilmente
che oggi gli uomini devono non solo tagliarsi i capelli ma anche
farsi la frizione dopo il lavaggio, chiaramente -e fors’anche
narcisisticamente- per evitarne la caduta, e successivamente “farsi
i ricci” -ammesso che ad una certa età ce ne siano ancora- (o
no?); la
parrucchiera
è diventata
coiffeuse
oppure, se al maschile,
coiffeur
pour dames
negozio
di giocattoli

è divenuto
toy’s
house

e l’
osteria
si è trasformata in
pub,
o

snack bar

o
cafè
& drinks
(cafè
rigorosamente con una effe sola, per un gentile richiamo alla lingua

spagnola);
il
fontaniere
resiste ancora ma col nome più moderno di
idraulico
(termine d’alto lignaggio, che infatti fino alla metà del secolo
scorso indicava, in queste zone, semplicemente lo studioso che si
occupava d’
idraulica,
cioè di quella scienza che esamina il moto ed i problemi tecnici
attinenti alle acque); il
fabbro
(in dialetto
al
fràb
,
oppure
al
magnàn
)
è diventato
carpentiere
metallico
,
in quanto non deve più ferrare cavalli o fabbricare utensili per
lavori agricoli bensì dedicarsi alla costruzione di cancellate,
d’infissi per le case, di attrezzature o di macchine inerenti
innumerevoli settori industriali. Inoltre bisogna aggiungere che le
tradizionali
botteghe
artigiane

sono diventate
piccole
industrie

(oppure
grandi
laboratori
)
con svariati lavoratori dipendenti, al contrario di prima dove c’era
soltanto il titolare, a volte qualche collaboratore familiare o, come
si ribadirà più avanti, il garzone.

Per
di più risulta oggi assai difficile, anche in un paese abbastanza
grosso e popoloso, ritrovare antichi e nobili mestieri come il
sarto,
il
falegname,
il
calzolaio
(o per meglio dire il
ciabattino,
che è il termine più consono all’attività svolta a quei tempi,
cioè quella di riparare scarpe il più delle volte troppo usurate):
essi sono oggi appannaggio quasi solamente di pensionati che fanno
questi lavori come “riempitivo”, senza assumersi impegni
lavorativi onerosi ed applicandosi solo con i cosiddetti
ciapìni,
cioè lavoretti leggeri attuati in alcuni ritagli di tempo lungo la
giornata.

Ucciso
dai vari
ipermercati
e

mercatoni
,
sta scomparendo anche il
salumiere,
come pure la tradizionale
bottega
di generi alimentari

che una volta era fornita di tutto ed in cui trovavi di tutto,
dai salumi nostrani alle scope per uso domestico, dai tabacchi
(e valori bollati) agli utensili da cucina, dai piccoli dolcetti
zuccherosi per i bambini ai pallini di terracotta (o, in tempi
più recenti, anche di vetro) per i giochi dei più grandicelli,
dalle sementi per l’orto ed il giardino ai diversi prodotti del
piccolo artigianato locale.

Anche
un’inimitabile figura di lavoratore sui generis, il
garzone
(in dialetto
al
garzòn
)
(spesso minorenne, ma a volte anche ben oltre la maggiore età, con
legami talora di parentela, ma assai più spesso assunto per
l’amicizia del padre con il titolare che doveva insegnargli
il mestiere), attualmente non esiste quasi affatto: oggi c’è
l’apprendista,
non più giovanissimo ormai, poiché ha dovuto fare almeno un
triennio di superiori per ottenere una qualche specializzazione in
scuole professionali e non è certo lì per imparare il mestiere
bensì per cercare un posto da dipendente, il più “fisso”
possibile. E pensare che il garzone lo si ritrovava “illo tempore”
non soltanto nelle botteghe artigiane, ma pure in campagna, fra i
braccianti, ove svolgeva solitamente il compito di portare da bere
agli operai (era il cosiddetto
vinatiere)
oppure nelle case coloniche con mansioni stallatiche, dov’era
chiamato, oltre che
garzone
di stalla
,
anche
boarolo,
con chiaro riferimento al lavoro che doveva svolgere.

In
verità, come sarebbe possibile avere attualmente un “garzone di
bottega” se la bottega artigiana non si trova ormai più, se non in
casi rarissimi?

Ma
ora, in questo piccolo saggio, posso occuparmi solamente di un numero
assai limitato di quei mestieri, legati al cosiddetto “mondo di una
volta”, che oggi sono scomparsi; quindi “riconsidererò”
soltanto alcuni lavori, fra tutte le attività manuali riguardanti
quel precipuo settore dell’economia che tuttora viene chiamato
“primario” (anche se oggi non lo è più per svariatissime
ragioni) ma che, fin dai tempi più antichi, è stato veramente la
fonte primaria di sostentamento per la stragrande maggioranza delle
famiglie di questo Comune: l’agricoltura. La mia rivisitazione sarÃ
concentrata nell’arco di un centinaio d’anni, grosso modo dalla
seconda metà dell’Ottocento alla prima metà del Novecento,
poiché, come accennato poc’anzi, con l’industrializzazione degli
anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso si assistette a quel
radicale cambiamento della società italiana che stiamo vivendo ancor
oggi.

Per
ben comprendere questo periodo storico, così importante per le
nostre radici, si deve esaminare sufficientemente bene quel sistema
economico-sociale che si fondava sulla
mezzadrianobile,
o di un
cittadino-borghese
o di un
Ente
ecclesiastico
.
Tutti costoro, nel contratto di mezzadria, fornivano la terra, con
sopra la casa, la stalla, il pozzo, il forno, e tutto ciò che
esisteva in “beni solidi” (in pratica, con una sola parola,
l’azienda agricola, cioè il
podere)
oltre alla metà delle sementi e dei bovini da lavoro; il
mezzadro
invece forniva tutta la forza lavorativa, sua e della famiglia, gli
attrezzi (aratro, carro, vanghe, zappe, etc.), l’altra metà delle
sementi e del bestiame (1); infine s’impegnava a non svolgere alcun
lavoro presso altri e ad utilizzare tutte le energie nella
coltivazione soltanto di quella terra. Naturalmente, tutta la
produzione, al lordo, veniva divisa a metà, ma il contadino doveva
anche far avere al proprietario degli apporti supplementari di tre
tipi: a)
in
natura

(capponi per Natale, uova per Pasqua, polli per S.Pietro, oche per i
Santi, galline per carnevale); b)
in
servizi

(trasporti, lavoretti domestici, lavori di giardinaggio); c)
in
denaro

(la pigione, cioè l’affitto della casa). I grandi proprietari, per
gestire al meglio le proprie aziende, ricorrevano poi ai
fattori,
gente esperta di cose agricole ed anche (secondo loro) fidata, che si
stabilivano sul posto; essi erano tenuti a relazionare periodicamente
i loro padroni. Oppure, in svariati casi, il possidente ricorreva
all’affitto intermediario.

Cronologicamente,
questo apparato economico nacque già nel Duecento, si diffuse e
divenne dominante nei tre secoli successivi, poi si conservò fino al
XIX secolo nonostante fasi di provvisorio e settoriale arretramento;
nell’Ottocento, fin dal periodo della Restaurazione, si assistette
all’erosione della mezzadria ed alla diffusione di tendenze
capitalistiche miranti a privilegiare il lavoro salariato: così le
Società Agrarie, ed anche parecchi economisti, si preoccuparono di
analizzare il fenomeno e pure di contrastarlo. Notevole fu il
tentativo del bolognese Carlo Berti Pichat di conciliare due
contrastanti esigenze: quella di modernizzare l’agricoltura
attraverso l’estensione delle
boarie
e quella di potenziare la mezzadria parzializzando i poderi, per
poter così accogliere gran parte della predominante mano d’opera
bracciantile utilizzata nelle aziende
a
economia

(2). Molto interessanti sono i dati provinciali, ricavabili dallo
studio fatto a tal proposito dal Pichat nel 1844, che sono riferibili
anche al nostro territorio comunale, ancora inserito nel bolognese;
da essi si possono attingere alcuni elementi-base: a) i
braccianti
veri e propri erano 91.663, pari al 33 % del totale della popolazione
rurale; b) gli assimilati (detti “artigianelli poveri” o
pigionali o braccenti) erano 25.000 (3); c) la somma delle due entitÃ
(che egli considerava un’unica classe) portava il totale a 116.663,
pari al 41 % degli abitanti; d) i mezzadri erano 127.910, pari al 46
%; e) proprietari, affittuari, fattori, bottegai erano 35.649, pari
al 13 %; f) il totale della popolazione provinciale era quindi di
280.222 persone, ben superiore ai 71.535 abitanti della città di
Bologna (4).

Siccome
la domanda di lavoro risultava in quel periodo molto inferiore alle
esigenze della popolazione bracciantile, ecco allora accentuarsi il
fenomeno del
vagabondaggio,
cui erano strettamente collegati furti e rapine; il fatto che i
mezzadri impiegassero i braccianti soltanto durante l’epoca dei
raccolti, per la vangatura nei canapai o per lo scavo e la
manutenzione dei fossi, era certamente limitativo nei riguardi del
contenimento di ambedue questi fenomeni sociali: il crescente aumento
del numero dei braccianti ed il vagabondaggio. Gazzagatto (lo
pseudonimo con cui si firmava spesso Carlo Berti Pichat, dalla
traduzione dei due sostantivi francesi che formavano il suo cognome:
pie-gazza e chat-gatto) crede d’individuare una soluzione molto
semplice nel forzare il mutamento inerente la composizione della
popolazione agricola, cioè aumentando da un lato il numero dei
mezzadri da circa 128 mila a 170-180 mila, così da ridurre d’altro
canto i proletari da 115 mila a 70-80 mila. E’ sicuro di ottenere
ciò attraverso una sola mossa: dividere i poderi più estesi, cioè
quelli che oltrepassavano le
dodici
corbe

(15-16 ettari) (5); egli dice testualmente: «Se tutti i fondi della
provincia fossero contenuti entro il limite delle 12 corbe di semina
per modo di contarne un terzo entro l’estensione di 4, altro terzo
entro quella di 8, e l’ultimo terzo entro quella di 12, invece di
presentarci per circa 130.000 corbe di semina una popolazione di
128.000 contadini, ne avremmo oltre 160.000», cioè una diminuzione
del numero dei braccianti di oltre 30.000 unità (6). Era quindi
conscio che proprio in quegli anni fosse in atto un processo
esattamente opposto di quello da lui auspicato; cioè, com’egli
dice, «il continuo crescente passaggio della popolazione
contadinesca alla categoria de’ giornalieri». L’idea del Berti
Pichat era già stata presa in considerazione alla fine del secolo
XVIII dal Supremo Consiglio d’Economia del vicino Ducato modenese,
secondo il quale la maggior diffusione di piccole aziende avrebbe
migliorato le coltivazioni, accresciuto la produzione ed incrementato
il numero delle famiglie mezzadrili poichè, come diceva lo stesso
Consiglio, «…molti contadini che ora non possono prenderebbero
moglie». Però i sommovimenti italiani legati all’arrivo dei
Francesi troncarono qualsiasi tentativo d’attuazione di quei
ventilati propositi modenesi.

Un’altra
sua intuizione, che si rifaceva alla giovanile esperienza di Priore
al neonato Comune di San Lazzaro, fu quella di utilizzare i
giornalieri nelle opere pubbliche; egli propose questo anche ai
proprietari, che si dimostrarono però molto più tiepidi che non i
Comuni della pianura, i quali davano «come a prestanza» gruppi di
giornalieri ai possidenti che dovevano impiegarli in lavori di
sistemazione dei loro fondi. Il pagamento delle cosiddette “
opere”
veniva fatto ai lavoranti dai Comuni: con sue parole «…a patto di
ricevere da que’ possidenti il reintegro in alquante rate, mediante
disborsi d’un tanto per anno, fino al saldo totale» (7). Il
problema del pauperismo si acuì negli ultimi anni del dominio
pontificio, anche per il progressivo allargamento dei poderi ad
economia e con la graduale estensione dei maggesi e delle “boarie”;
inoltre la spirale dei prezzi nei generi di prima necessità non
andava attenuandosi, cosicché le grandi masse rurali,
particolarmente quella dei giornalieri, si dibattevano fra la carenza
di lavoro ed il continuo rincaro soprattutto del frumentone. Se il
frumento nel giro di un anno era praticamente raddoppiato (siamo
circa alla metà del secolo) il formentone era quasi triplicato, con
grave nocumento per le classi più povere; inoltre tale crisi
inflattiva non si attenuò con l’arrivo del Regno sabaudo, anzi
parve ritornare con maggior virulenza negli ultimi lustri
dell’Ottocento.

Tutti
sanno che la base alimentare della gran parte dei contadini e dei
braccianti bolognesi, quindi anche del Comune di Poggio Renatico, era
costituita proprio dalla farina di questa pianta; ebbene essi
dovevano, da ottobre a maggio, macinarla sempre a piccole partite:
infatti ogni famiglia macinava soltanto una quantità pari al consumo
familiare per un periodo di tempo mai superiore ai 15-20 giorni.
Questa frequentazione così assidua del mulino (circa un paio di
volte al mese) era dovuta al fatto che la farina di granoturco
(mancando i moderni metodi di conservazione) si deteriorava
velocemente: ecco allora che le avverse condizioni atmosferiche
(assai spesso erano il gelo e la siccità che impedivano ai mulini di
operare) determinavano frequenti periodi di fame e carestia presso
gli strati più poveri della popolazione.

Nella
seconda metà del secolo ed anche con l’avvento del Regno d’Italia,
la crisi del sistema mezzadrile non solo non s’arrestò, anzi
s’accentuò. Così quest’apparato economico continuò a restare
dominante in molte aree della nostra pianura, pur essendo evidente la
sua decadenza: neppure quel punto di svolta epocale rappresentato dal
trasferimento del nostro territorio dallo Stato pontificio al Regno
d’Italia (con il corrispondente passaggio dalla provincia di
Bologna a quella di Ferrara) riuscì a portare cambiamenti
significativi nelle nostre campagne. Come accennato poc’anzi, negli
ultimi decenni del secolo l’apporto di nuove tecniche d’aratura,
l’inizio di una certa meccanizzazione agraria nelle grandi tenute,
l’espansione di alcune coltivazioni estensive (come il frumentone,
la barbabietola, la canapa) portarono al nostro territorio scarsi
risultati: qui venne a mancare certamente l’apporto delle risaie,
che invece accrebbero notevolmente l’occupazione giornaliera nei
Comuni limitrofi del bolognese e che si dimostrarono molto adatte ai
terreni della nostra pianura, da poco tempo liberatasi delle ormai
secolari “valli”, quindi ancora tendenzialmente umide e
globalmente favorevoli a questa pianta. Anche se nelle nostre aziende
agricole si assistette al notevole incremento dei terreni coltivati a
canapa e frumentone, l’organizzazione del lavoro rurale (e quindi
anche i rapporti fra i vari strati sociali) non subì nella sostanza
grandi mutamenti fino allo scoppio della Grande Guerra. Il passaggio
di Poggio dal bolognese al ferrarese portò gradualmente anche nelle
nostre campagne all’acquisizione del
versuro
come unità aziendale (che nel ferrarese aveva preso piede già nel
Settecento) con il quale le possessioni venivano praticamente
dimezzate, da 70-80 ettari a 32-36 ettari: si attuava quindi pure la
relativa diminuzione del capitale-animali presente nelle campagne
(8). Il patrimonio zootecnico era incentrato prevalentemente sul
bestiame bovino, ma soltanto una piccola parte era destinato ad
aziende specializzate alla produzione di latte (9); in genere, la
quasi totalità degli armenti veniva utilizzata come trazione
bestiale nell’aratura e nella coltivazione campestre: quindi quel
cambiamento strutturale dei poderi portò anche ad una contrazione
globale di ciò che potremmo considerare come una grande forza-lavoro
del mondo agricolo, anche se di componente animale. In buona
sostanza, ciò che il Berti Pichat voleva fare negli anni ’40/’50
dell’Ottocento, trovò attuazione una quarantina di anni dopo, e
ciò senza che un’autorità costituita lo imponesse “ope legis”
bensì in forza di una trasformazione politico-economica. Però, con
l’arrivo del nuovo secolo, i sistemi tradizionali di conduzione
della terra, che si polarizzavano nella mezzadria e nella boaria
(forma mista di colonia e salariato), richiedevano sempre di più una
grande massa di lavoratori avventizi, molti dei quali avevano
frequentemente trovato impiego come sterratori o come
scariolanti
in tutti i grandiosi lavori di bonifica che si erano susseguiti nelle
nostre zone, dalla sistemazione della pianura renana col definitivo
Progetto-Lecchi (di cui parleremo in modo maggiormente approfondito
un po’ più avanti, a proposito della canapa) fino alle operazioni
di bonifica delle nostra pianura attraverso quei grandi canali, che
ancor oggi vediamo, costruiti o risistemati nei primi lustri del
Novecento. Gli scariolanti trovarono occupazione, pur se in misura
minore rispetto ad altri periodi storici, anche durante il periodo
fascista; i lavori di arginatura e di rafforzamento dei nostri fiumi
e dei nostri canali, oltre a tutto ciò che riguardava la
sistemazione idro-geologica del territorio, non furono l’unico
veicolo occupazionale per la maggior parte di essi: infatti anche
altre grandi opere pubbliche li videro protagonisti e fra queste
basti citare la costruzione o la manutenzione di svariati tratti
delle vicine strade statali, provinciali, comunali, così come la
realizzazione nel 1918 del primo “campo d’aviazione” con ben 11
hangar, tre capannoni, un magazzino, gli alloggi per ufficiali e
truppa, oltre ad una pista d’atterraggio di 800 metri di lunghezza
e 550 metri di larghezza. Nel periodo fra le due guerre venne attuato
l’allargamento, con conseguente potenziamento, dell’aeroporto di
Poggio Renatico ed arrivò nel 1931 la Prima Brigata Aerea da
combattimento. Anche durante la seconda guerra mondiale, essendo
divenuto sede della Luftwaffe nel 1943, occupò un gran numero di
salariati della zona (pur se per ragioni ben diverse e soprattutto
per riparare i danni subiti nei bombardamenti aerei alleati, che con
l’avanzare della guerra diventavano sempre più devastanti) i quali
si recavano al lavoro ogni giorno alla TODT, dove ricevevano un
regolare salario.

Alla
fine dell’Ottocento, si potevano trovare in paese, presso il
negozio di alimentari oppure a quello di ferramenta (in dialetto
la
feramènta)
,
alcuni manufatti tipici della zona, quali le
ceste
di vimini o le
sporte
di varie dimensioni: le prime servivano a contenere o trasportare i
prodotti non liquidi e le seconde alle varie necessità familiari di
spostamento di cibarie, particolarmente per la spesa quotidiana delle
massaie. Le ceste domestiche, di varie dimensioni, venivano usate,
oltre che per tenere in ordine le provviste “solide” della casa
(molto importante era il pane, che veniva fatto di solito una volta
la settimana), anche nei lavori agricoli, durante la raccolta di
alcuni tipi di frutta, di legumi, di cereali; le sporte invece
avevano come uso primario il trasporto a mano di svariate cose, nel
maggior numero dei casi derrate alimentari. Questi prodotti
artigianali presupponevano l’acquisizione di tecniche produttive
che erano alla base di un mestiere particolare: il
cestaio
(con
termine dialettale
al
panirér)
.
La fabbricazione di questi canestri veniva fatta principalmente
all’interno della casa colonica o nella stalla durante il periodo
di cattiva stagione ed essi dovevano poi servire a tutta la famiglia
“allargata”, tipica delle campagne padane (10): infatti uno della
famiglia (di solito un uomo, ma a volte poteva essere anche una
donna) nei mesi invernali, quando i lavori agricoli stagnavano,
costruiva questi utensili trattenendone alcuni per sé e
commerciandone altri; la materia prima per la loro fabbricazione era
costituita dai rami di frassino (in dialetto
“i
frassanéin”
)
che erano di facile reperibilità in quanto questi alberi crescevano
rigogliosi nelle vicinanze dei tanti canali della zona o sul fiume
Reno, nelle cui golene si recava la maggior parte dei suoi
procacciatori. In verità, non soltanto a Poggio ma anche in quasi
tutti i centri abitati della “bassa”, esisteva un artigiano che,
padroneggiando le tecniche costruttive di questi prodotti, li
realizzava e li vendeva poi al negoziante del paese. Altro mestiere
collegabile a questo era il
seggiolaio
(in
dialetto
al
scranér
)
che impagliava (ed a volte anche “aggiustava” letteralmente) le
sedie di casa già consunte; di solito si muoveva in giro per le
campagne a cadenza annuale, durante la cattiva stagione, ma, a volte,
veniva anche chiamato “d’urgenza” per il semplice motivo che
attendere il suo solito “giro” avrebbe fatto passare troppo tempo
e le “scranne” non potevano più aspettare, pena il non sedersi a
tavola. L’impagliatura delle seggiole veniva fatta con l’intreccio
di una pianta palustre tipica delle valli nostrane, il “Carice
delle rive”

(Carex riparia
)
che assumeva localmente svariati nomi, quali
pavìra,
erba sala, quadrello
,
a seconda delle zone di appartenenza; essa cresceva spontaneamente a
ridosso di fiumi e canali o tra le acque melmose delle valli (11).
Con quest’erba essiccata venivano fabbricate pure le
sporte,
intrecciate le
stuoie
ed anche impagliate le
damigiane
ed i
fiaschi.
I termini “damigiana” e “fiasco” sono riferiti alla lingua
italiana; i termini dialettali locali d’uso comune erano invece
rispettivamente “
zócca”
(o “
zucón”)
e “
zuchèin”
(o
zuchètt),
quest’ultimi usati pure al femminile
,
facenti chiaramente riferimento alla loro dimensione, alla loro
capacità ed anche manifestamente collegabili, nella loro forma, a
due piante ortive molto comuni: la zucca e la zucchina).

Il
seggiolaio era molto spesso anche
scopettaio,
fabbricava cioè le
scope
per pulire i pavimenti delle case “povere”. A quel tempo, sia
nelle case coloniche che in quelle di paese, le pavimentazioni
degl’interni domestici a piano-terra erano quasi tutte di due tipi:
in terra battuta o in mattoni cotti (e quest’ultimo manufatto andò
via via sostituendo la terra nuda pressata, particolarmente dalla
seconda metà dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento);
invece per i piani superiori, di solito uno o due (con il secondo
parecchio più basso a mo’ di mansarda), veniva usato quasi ovunque
il legno. Le scope erano fatte con le cosiddette
spazzarine,
cioè con la parte terminale ad infiorescenza di una canna palustre
di facile reperibilità, la
saggina,
il cui ciuffo si dimostrava adattissimo a questa funzione in quel
tipo di case. Esisteva anche un altro tipo di scopa, costituita da
fasci di stecchi molto sottili, legati fra loro e poi assemblati
l’uno a fianco all’altro per formare una linea compatta,
orizzontalmente efficace (oggi sono fabbricate in plastica colorata,
meno voluminose ma più larghe, meno compatte ma più comode), la
quale veniva fatta sempre con la
saggina
(detta in dialetto
mélga)
però con il suo stelo, molto sottile e resistente, assai adatto
all’uso e facilmente ritrovabile nelle campagne. Le
ramazze,
invece, che venivano usate per il cortile della casa o per le sue
vicinanze oltre che per la pulizia di locali attinenti lavori
agricoli, erano fatte con i rametti essiccati, lunghi e sottili,
degli alberi più fruibili nelle campagne circostanti, oppure assai
più spesso con i rami secchi dei cespugli, di parecchio più
resistenti. Questi bastoncini, di solito abbastanza friabili,
fornivano una certa robustezza se legati a fastello attorno al loro
manico, ma il loro spezzarsi e consumarsi era evidentemente assai
facile; così com’era facile, d’altronde, reperirli in grande
quantità dagli alberi o dagli arbusti che costellavano i campi
coltivati.

Molto
importante era pure la fabbricazione dei
rastrelli,
attrezzi interamente lignei, utilissimi sia nelle campagne che nelle
adiacenze delle case coloniche; ebbene questi utensili venivano
costruiti molto spesso dagli stessi contadini che provvedevano loro
medesimi sia alla fabbricazione che alla riparazione di questi
manufatti; tuttavia li si potevano reperire pure nel negozio paesano
di ferramenta. Non esisteva un vero e proprio “mestiere” per
realizzare questi arnesi tipici della nostrana agricoltura, però si
può dire che essi erano appannaggio di qualunque falegname, il quale
li costruiva il più delle volte su ordinazione.

Una
delle colture più estese nelle nostre campagne, in relazione al
periodo di tempo preso in considerazione, fu senza alcun dubbio la
canapa

La
canapa era già conosciuta nell’Età Antica: ce lo testimoniano,
fra i tanti autori d’epoca romana, Plinio il Vecchio nella sua
monumentale “Naturalis Historia” e Lucio Moderato Columella nel
“De re rustica”, opere entrambe databili al I secolo d.C.; in
tutta la Penisola, la diffusione di questa pianta, però, restò
assai limitata fin verso la fine del Medio Evo: neppure Pietro de’
Crescenzi (conosciuto anche come Pier Crescenzi, Bologna, 1233-1320,
giurista ed agronomo) nel suo “Liber commodorum ruralium” -detto
pure “De agricoltura”- forse l’unica, vera, grande opera
agronomica medioevale, ci fornisce maggiori e più precise
informazioni su questa coltivazione rispetto a quelle degli antichi.
Ma è dal XV secolo che numerosissime fonti storiografiche
documentano la grande espansione di questa pianta in tutto il
territorio della “bassa” bolognese ed in tutta la pianura fino al
Po; naturalmente la coltivazione è legata al forte aumento
commerciale di alcuni “prodotti” che diventeranno, per un lungo
periodo, tipici della città di Bologna: la fibra, il cordame ed il
tessuto canapino. Dapprima il Comune di Bologna, poi le varie
signorie succedutesi nella città e quindi lo Stato Pontificio
cercheranno di salvaguardare questo monopolio “industriale”
urbano e quindi, di riflesso, anche la rispettiva produzione agraria
nel nostro territorio. Basta un solo dato per render conto
dell’importanza della canapa per Bologna nel XVI secolo: nella sua
lavorazione presso gli opifici cittadini erano impegnati circa 12
mila lavoratori! La progressiva espansione coltiva di questa pianta
non ebbe luogo soltanto nelle nostre campagne, ma anche in svariate
regioni europee: ciò era indubbiamente dovuto alla forte richiesta
da parte di tutte le grandi potenze marittime del tempo, a cominciare
dalla Repubblica di Venezia e dal Regno d’Inghilterra, le quali
usavano i prodotti finiti per le vele ed i cordami delle loro grandi
flotte, prediligendo la canapa nostrana (12).

A
Bologna esistette fin dal XV secolo la “Compagnia dei gargiolari”
la quale aveva scelto come santo protettore Sant’Antonio Abate:
teneva quindi ogni 17 gennaio la sua festa ed offriva nello stesso
giorno la cera alla di Lui cappella in San Giacomo Maggiore; nel 1666
ai gargiolari venne riconosciuta ufficialmente la loro Compagnia che
si chiamò “Arte de’ gargiolari e capestrari di Bologna”,
confermando come suo protettore particolare S. Antonio Abate.

Anche
nei secoli XVII e XVIII la canapa occupò nelle nostre campagne buona
parte delle terre coltivate, nonostante i disastri idro-geologici
susseguenti alla forzata immissione del Reno nella valle San Martina
ed alla successiva e progressiva espansione delle parti vallive in
tutto il territorio comunale di Poggio Renatico; a tal proposito
basta ricordare il nome (Valli di Poggio e di Malalbergo) dato a
tutto quel grande territorio acquitrinoso, formatosi dal 1604 in poi,
a sud dell’odierno Reno; la superficie valliva andò allargandosi
sempre più col passar degli anni e trovò la sua definitiva
sistemazione soltanto nel 1767 col progetto di Antonio Lecchi,
Tommaso Temanza e Giovanni Verace. Tale pianificazione, diretta con
energia e competenza da mons. Ignazio Boncompagni Ludovisi (il futuro
cardinale bolognese, inviato appositamente da papa Clemente XIII per
attuare ciò che la Sacra Congregazione dell’Acque aveva deciso),
risolse così in gran parte gli annosi problemi idraulici della
pianura renana utilizzando il Cavo Benedettino ed il ramo del Vecchio
Primaro per portare direttamente il fiume in Adriatico. I benefici
che ne derivarono furono subito evidenti; a tal proposito è
sufficiente citare alcuni dati significativi: nel 1780 (nonostante le
gravi inondazioni del 1772) vennero strappate alle acque 87.018
tornature, di cui 14.519 investite a frumento, 7.307 a marzatelli,
3.149 a canapa ed il resto occupato da prati, pascoli, boschi e dai
cosiddetti “vegri” (13); due anni dopo l’estensione bonificata
si era estesa di altre 5.458 tornature e nel 1789 un’altra
valutazione (ritenuta però dallo Zangheri “forse un po’
esagerata”) riportava a 121.130 le tornature totali bonificate,
pari ad ettari 25.235 (14); certamente una bella fetta di terreno
riconquistato alle antiche colture, pur se gonfiata (15). Resta
chiaro, quindi, che la situazione andò migliorando progressivamente
anche nel secolo successivo, nonostante le periodiche inondazioni di
questo limaccioso e riottoso fiume pènsile (16).

Tornando
alla coltivazione della canapa, per essa si deve far riferimento
quasi interamente al sistema della mezzadria e del bracciantato;
questi due apparati agrari consentirono alla nostra pianura di
rappresentare, per alcuni secoli, il fulcro del grande sviluppo
coltivo di questa pianta. Infatti questo particolare rapporto di
produzione dispose di una notevole quantità di manodopera a basso
costo (cioè quello dell’intera famiglia contadina e dei numerosi
braccianti locali) facendo sì che questo prodotto costituisse la
fonte di maggior reddito per unità di superficie, anche rispetto
alle più “tradizionali” colture delle nostre zone, perlomeno
fino alla fine del XIX secolo. A tal proposito uno studio del Comizio
Agrario di Bologna, nel 1881, individuava in Lire 310,40 il guadagno
per ettaro del padrone ed in Lire 23,19 quello del mezzadro in un
podere di terreno sciolto: resta evidente, oltre alla buona resa del
prodotto, anche la notevole sproporzione reddituale fra proprietario
e colono (17).

Non
voglio dilungarmi qui nell’esporre le varie fasi della lavorazione
della canapa, ma ci limiteremo soltanto a riassumerle in modo assai
sintetico, partendo dalla
ravagliatura.
Questa nuova tecnica di produzione, introdotta verso la fine del
Settecento ed ai primi dell’Ottocento per il notevole incremento
dei canapai, consisteva nel fondere assieme il lavoro d’aratura con
quello di vangatura; la simultaneità dei due lavori, che
precedentemente erano svolti l’uno a seguito dell’altro con
notevole utilizzo di manodopera contadina (ed anche bracciantile)
durante il mese di novembre, permetteva un sostanzioso risparmio di
manovalanza al colono che, per l’espansione coltiva suddetta, non
era più in grado di affrontare i lavori sul canapaio, diventato
ormai un quarto di tutto il podere (18). L’operazione successiva
era la
semina,
seguita subitamente dalla ricopertura del seme con un rastrello: ciò
rendeva così molto più uniforme e più fertile il terreno trattato.
La raccolta degli steli veniva fatta in piena estate, verso la fine
di luglio o ai primi d’agosto; col falcetto, ogni lavoratore li
recideva a gruppi alla base, poi li ordinava in
manelle,
che subito dopo incrociava progressivamente sul terreno a forma di X.
Dopo l’essiccatura, alle manelle veniva praticata la cosiddetta
“scossatura” per far cadere le foglie, indi queste venivano
posizionate in fasci conici più grandi (aventi un diametro di base
di circa due metri), detti
prelle.
Dopo alcuni giorni la prella veniva disposta su di un bancale per
selezionare gli steli a seconda della lunghezza: essi erano poi
legati in fasci cilindrici formati da una decina di manelle e
trasportati al
macero.
Qui iniziava quel processo degenerativo che avrebbe consentito di
togliere lo stelo legnoso (il
canapulo)
dalla fibra tessile (il
tiglio)
attraverso la postura in acqua stagnante, che durava circa otto
giorni, dei
postoni,
cioè dei fastelli precedentemente preparati ed ammassati a mo’ di
zattera, i quali venivano in seguito affondati con due semplici
metodi, detti “a stanghe” o “a sassi” (19). Dopo il periodo
di macerazione, i postoni venivano riportati a galla, trascinati ai
bordi del macero e slegati per procedere alla
lavaturadecanapulazione,
cioè a quelle due fondamentali operazioni che consentivano di
liberare la canapa macerata dallo stelo legnoso (o canapulo) al fine
di ottenere il tiglio grezzo; queste due fasi lavorative erano: la
scavezzatura
e la
gramolatura.
Tali interventi richiedevano un grande impiego di forza-lavoro,
cosicchè la famiglia mezzadrile doveva ricorrere sia allo scambio
d’opera con altri coloni (la cosiddetta
zèrla)
sia ad una consistente manodopera bracciantile. Attorno alla metÃ
dell’Ottocento, la scavezzatura non venne più fatta a mano, ma si
cominciò ad attuarla con delle macchine. Ciò consentì di lasciare
ai braccianti il lavoro di gramolatura, eseguito con la tradizionale
gramola; verso la fine del secolo vennero poi introdotte delle

locomobili a vapore
,
che portarono alla meccanizzazione di queste ultime due fasi
lavorative. L’ultima parte attiva che il contratto di mezzadria
assegnava ai coloni era la decanapulazione; al termine, la canapa
grezza veniva immagazzinata in attesa della vendita (20).

L’operazione
successiva consisteva nella commercializzazione del prodotto e questa
spettava al proprietario; il padrone incassava molte volte anche la
parte colonica, a compenso dei debiti contratti dal mezzadro durante
l’anno. A Bologna, o in alcuni centri minori del contado, la canapa
subiva le ultime quattro lavorazioni (
gargiolatura,
filatura, tessitura, corderia
)
che vedevano impegnate migliaia di persone, fra artigiani, lavoratori
a domicilio ed operai di manifattura.

Bisogna
ricordare ulteriormente che al mezzadro, soprattutto nel Novecento
piuttosto che nel secolo precedente, veniva concesso dal possidente
una quota limitata del prodotto al momento dell’immagazzinaggio,
cosicché svariate “mazzuole” venivano accantonate, pronte per la
pettinatura domestica: per far ciò si ricorreva a due artigiani, il
gargiolaio
ed il
cordaio,
che svolgevano due di quei lavori che oggi non esistono più. Il
primo operava presso la casa colonica (ospitato spesso pure a pranzo
e cena) in autunno e molte volte veniva compensato con una parte del
prodotto, cioè con
gargiolo
e stoppa
màsola.
C’era pure un altro mestiere, ora scomparso, legato alla
modificazione di questa pianta: il
conciatore.
Queste persone, a metà strada fra il lavorante e l’artigiano,
andavano presso le case dei mezzadri a conciare le matasse perché
potessero essere lavorate; per far questo usavano i
grafi,
cioè delle punte di ferro con le quali si
graffiava
la canapa affinché diventasse sottile, quindi facilmente tessibile.
La
filatura,
l’
ordinatura
e la
tessitura
erano
le ultime operazioni che però venivano fatte in ambito domestico ed
essenzialmente per il soddisfacimento dei bisogni familiari di tele;
erano le donne dei contadini che, nei mesi invernali ed il più delle
volte nelle stalle, lavoravano il gargiolo e la stoppa con
rocca,
fuso, aspo, navetta e filatoio
,
preparando in tal modo la
trama:
essa veniva tessuta su un telaio (sempre di proprietà della
famiglia) sul quale la tessitrice, esercitando una pressione sui
pedali, alzava ed abbassava alternativamente le due serie di fili
dell’ordìto, inserendo poi la navetta nel varco che ogni volta
s’apriva.

Verso
la fine dell’inverno questo procedimento artigianal-domestico,
apparentemente semplice ma in realtà assai complesso, terminava con
l’acquisizione di nuova biancheria, nuovo vestiario, nuovo corredo
per le figlie da maritare. Oltretutto, a volte poteva restare qualche
matassina di stoppa che il mezzadro si premurava di vendere, in paese
o in città, ricavandone così un po’ di soldi che, in tempi grami,
sarebbero diventati vera e propria manna dal cielo.

Vorrei
terminare con una mia personale considerazione, che in realtà è
soprattutto una constatazione: tutte le persone che hanno vissuto
(anche soltanto parzialmente o in un lasso di tempo assai ristretto)
questo tipo di società contadino-patriarcale, tutti coloro con cui
ho potuto scambiare discorsi e ragionamenti, la ricordano non
soltanto con quella nostalgia che è tipica delle reminiscenze
d’infanzia, in cui tutto era sempre più bello e più buono, ma con
un amore unico ed un affetto sincero verso quella forma di società.
Essa, secondo loro, pareva veramente privilegiare sia i rapporti tra
persone che la gioia di poter aiutare gli altri, fossero essi
parenti, vicini, oppure anche persone sconosciute.

Concludo
con una domanda, forse un po’ retorica ma degna di riflessione:
l’insieme di quei comportamenti era soltanto sintomo di “caritÃ
cristiana” oppure era quel genere di società, strutturata in quel
modo, a mantenere ed a sostenere certi valori che oggi, purtroppo,
vanno scomparendo?

Giulio Reggiani

Note:

(1)
Qualche contratto, anche nel nostro territorio comunale, prevedeva
che il colono fornisse tutto il bestiame; ciò pareva essere
notevolmente svantaggioso per il mezzadro, ma in realtà il danno
veniva attenuato da altri piccoli benefici sull’allevamento e sulla
produzione agricola, “benefit” che il proprietario concedeva alla
chiusura dei vari raccolti.

(2)
Le “boarie” ed anche le cosiddette “aziende ad economia”
erano strutturalmente ed imprenditorialmente molto simili, anzi si
potrebbe dire che erano sostanzialmente la stessa cosa: infatti
ambedue utilizzavano in modo consistente la manodopera bracciantile,
preferita al contratto di mezzadria per i minori costi economici dei
braccianti e per la stagionalità nell’impiego di questi
lavoratori, particolarmente in terreni con poca resa di coltivazione:
questi poderi, perciò, abbisognavano anche e soprattutto dell’uso
della vanga. Nel contratto di
boaria
veniva sancito il rapporto “lavorativo” fra il proprietario e
l’intera famiglia colonica, rappresentata dal suo reggitore
(l’
arzdòur),
ossia il
boaro.
Quest’ultima figura era ben diversa da colui che svolgeva
tutt’altro lavoro curando il bestiame bovino nella stalla: il
termine è identico, ma quello non si deve confondere con
quest’ultimo, essenzialmente un lavorante, che era chiamato, oltre
che
boaro,
anche
boarolo
o
vaccaro.
Molto interessante, su questo argomento, è il contratto di boaria
esposto nel volume di CARLO LEGA,
La
società contadina nell’alto ferrarese,

Ferrara, 1994, al capitolo IV, par. 6, pag. 63 e segg..

(3)
I
braccenti
(termine da non confondere con
braccianti)
erano lavoratori agricoli che nelle “aziende ad economia” e nelle
“boarie” avevano un certo qual rapporto di stabilitÃ
occupazionale, avendo ottenuto dall’imprenditore agrario la
sicurezza di un assodato “plafond” di giornate lavorative
annuali. Essi si occupavano, oltre che della raccolta dei vari
prodotti presenti nel podere, anche della manutenzione “ordinaria”
dei campi. Vedasi sull’argomento il libro di MARIO ZUCCHINI,
L’agricoltura
ferrarese attraverso i secoli
,
Roma, 1967, pag. 185 e segg., pag 269 e segg., oltre a quello di Don
VINCENZO DOMENICO CHENDI,
Il
vero campagnuolo ferrarese
,
Ferrara, 1761.

(4)
Vedasi, riguardo i dati statistici, CARLO BERTI PICHAT,
Delle
tutela dei prodotti campestri,
Bologna
1847, pag. 177. Inoltre bisogna tener presente che ognuna di queste
cifre era pure comprensiva di tutti i membri familiari collegabili al
capofamiglia. Costui, quindi, li “trascinava statisticamente”
tutti quanti nella categoria in cui lui stesso si trovava inserito.

(5)
La
corba
costituiva la prevalente unità di misura di capacità, usata in
queste zone per prodotti “non liquidi”. Si era soliti, a quel
tempo come in tempi passati, misurare le aree coltive dei terreni non
soltanto con unità di misura di superficie ma anche in base alla
loro capacità produttiva, riferendosi naturalmente alla quantità di
sementi utilizzata.

(6)
C. BERTI PICHAT,
op.
cit.
,
pag.189.

(7)
Vorrei ricordare che la cosiddetta “opera” (
óvra
in dialetto) equivaleva al lavoro dipendente di un operaio agricolo
per una giornata.

(8)
Il
versuro,
che prendeva innegabilmente il nome dall’omonimo e più famoso tipo
di aratro, era quell’unità colturale o aziendale costituita dalla
superficie di terra coltivata che si poteva arare nel corso
dell’annata, comprensiva dei due “avanzoni” di frumento e
“
marzatelli”.
Naturalmente l’estensione variava a seconda del tipo di terreno,
più limitata in quelli argillosi, più vasta in quelli silicei ed
organici, ovviamente di più facile lavorazione. Vincenzo Domenico
Chendi, (
op.
cit.
)
per terreni di una proporzionata mescolanza, calcola il “versuro”
attorno ai 35 ettari, compresi pascoli e prati naturali fornenti il
fabbisogno erbaceo per il tiro del bestiame. Sull’argomento vedasi
pure M. ZUCCHINI,
Op.
cit.
,
pag. 190 e segg..

(9)
Nell’Ottocento, quest’attività casearia non risulta essere mai
stata presente sul nostro territorio comunale ed anche in ambito
provinciale la ritroviamo assai sporadicamente. Si stava diffondendo
però verso il modenese: infatti qui troverà notevole crescita,
diventando più tardi una voce economica importante nell’ambito
dello sviluppo agrario novecentesco.

(10)
La “famiglia allargata” o “patriarcale” era caratteristica
di tutta la pianura padana ed aveva come fulcro conduttivo il
cosiddetto
arzdòur
e sua moglie, l’
arzdòuraLa
famiglia contadina e il podere in Emilia Romagna
,
in “Fossi e cavedagne benedicon le campagne”, Il Mulino, Bologna,
1982. Sull’argomento, resta molto interessante il paragrafo del
libro di CARLO LEGA,
La
società contadina nell’alto nell’alto ferrarese
,
Ferrara, 1994, cap. IV, par. 3, pag. 53 e segg.,

dedicato
alla famiglia colonica, come pure degno d’attenzione è l’intero
capitolo X, sempre rivolto allo stesso argomento (pag. 139 e segg.),
del medesimo libro. Quindi tale famiglia non è certamente da
confondersi con la “famiglia allargata” d’oggi, determinata
essenzialmente da divorzi, separazioni e nuovi matrimoni.

(11)
Nel saggio di DINO CHIARINI,
Le
trasformazioni agrarie nell’‘800 e nel ‘900
,
in “Maletum”, Malalbergo (Bo), 2004, pag. 34 e segg., egli,
occupandosi di quest’erbe palustri nel vicino Comune di Malalbergo,
le chiama con gli stessi nomi da me usati, con l’unica eccezione
della
pavìra
che egli chiama
paviera.
La differenza mi sembra estremamente ridotta, forse dettata da
un’italianizzazione del termine da parte sua oppure dalla
dialettizzazione del vocabolo da parte mia. Il Chiarini rende inoltre
un quadro complessivo delle colture di questo Comune a noi vicino
proprio nel periodo storico relativo a questa mia breve trattazione:
si può così notare che le coltivazioni erano molto simili, essendo
molto simile il territorio di questi due Comuni limitrofi; l’unica
vera eccezione era costituita dal
riso,
che là rappresentava una vera forza trainante per l’economia
agricola locale, mentre a Poggio Renatico non abbiamo notizie di una
sua vasta superficie coltivata, né nell’Ottocento né nel
Novecento.

(12)
Fu proprio da quel periodo che le grosse funi cominciarono ad essere
chiamate “canapi”.

(13)
I
vegri
erano, fin dal secolo XVI, quei campi coltivati, tenuti a riposo per
alcuni anni, che costituivano, nell’ambito del podere, la parte più
consistente di coltivazione erbacea; essi, solitamente posti nelle
parti più basse della possessione, accoglievano poi prodotti a
carattere estensivo. Vedasi al riguardo M. ZUCCHINI,
op.
cit.
,
pag. 206 e segg. e pag. 235.

Per
quanto concerne i
marzatelli
venivano così chiamate quelle piantagioni da raccogliere in
primavera, con riferimento evidente al mese di marzo.

(14)
Rammento al lettore che una tornatura bolognese corrisponde a mq.
2.080, cioè circa un quinto di ettaro: il rapporto fra le due misure
di superficie è per l’esattezza 4,8066).

(15)
R. ZANGHERI,
Per
lo studio dell’agricoltura bolognese nel ‘
700,
in «Studi in onore di Armando Sapori», vol. II, Milano, 1957, pag
1250 e segg..

(16)
Alcune furono veramente molto gravi. Voglio qui citarne solamente
quattro fra quelle ottocentesche riguardanti questa parte della
pianura renana (e qualcuna anche il Comune di Poggio Renatico), sia a
destra che a sinistra del fiume: 1) quella del settembre 1842 nella
quale, in soli due giorni, il 13 ed il 14, il corso d’acqua ruppe gli
argini in ben 8 punti lungo il suo tragitto fino al mare ed uno di
questi squarci si ebbe in località
Torniano,
presso il
Passo
del Gallo
,
per
sormonto e con un varco di circa 117 metri nel corpo arginale; 2)
quella del 27 dicembre 1859, per sormonto, nella zona destra in
Comune
di Argelato
,
di due mesi successiva a quella in argine sinistro, abbastanza in
prossimità della foce, con allagamento globale di ben 100.000
ettari, inclusi l’abitato di
Comacchio
e
le sue valli; 3) quella del 7 novembre 1864, nell’argine sinistro
al
Passo
del Gallo
,
per “fontanaccio”, con un allagamento di circa 6.000 ettari ed
uno squarcio di 112 metri; 4) la famosa
Rotta
Cremona

del 1889, nell’argine destro fra Pieve di Cento e Galliera, che
sparse le acque del Reno, oltre che nei due paesi citati, anche a San
Venanzio ed a Malalbergo, arrivando a sommergere i terreni fin oltre
Passo Segni. La quantità di acque espansesi alla destra del fiume fu
notevolissima: significativo il fatto che a Malalbergo il livello
dell’inondazione superò il metro nel centro del paese, cioè in
uno dei suoi punti più “alti”; ne dà testimonianza una lapide,
appositamente appesa ad un edificio, per ricordare l’evento
eccezionale.

(17)
Monografia
del podere bolognese
,
a cura del Comizio Agrario di Bologna, Bologna, 1881, pag. 6 e segg.,
pag.18 e segg..

(18)
Per quanto riguarda tale metodo di coltivazione, vedasi CARLO PONI,
Aratri
e sistemazioni idrauliche,
in
“Fossi e cavedagne benedicon le campagne”, pag. 119; egli
riferisce che la ravagliatura, durante il secolo XIX, si diffuse
anche nei campi a mais, pur in forma modificata. Ci ragguaglia
inoltre (sulla base dell’opera di AGOSTINO RAMPONI,
Il
testamento di un vecchio agricoltore
,
in “Annali della Società agraria della provincia di Bologna”,
vol. LVII degli «Annali» e LXVII delle «Memorie», Bologna, 1930,
pag. 132) circa la differenza di resa fra le cosiddette
fette
(campi investiti a frumento e marzatelli, con maggese irregolare) ed
i
canapai
(campi
investiti a frumento-canapa in rotazione continua). Questo studioso,
vissuto a cavallo dei due secoli scorsi, racconta come, verso la fine
dell’Ottocento, riuscì a portare tutto il podere ad una resa
uniforme coltivando le fette con le stesse tecniche intensive dei
canapai. Fino a quel momento le fette non erano mai riuscite a
colmare il “gap” produttivo nei confronti dei canapai: a tal
proposito egli riporta pure alcune cifre, riferibili alla fine di
quel secolo: i canapai rendevano 20 quintali di frumento per ettaro,
mentre le fette soltanto 7-8, cioè poco più di un terzo. Va detto
però (e questo è un mio rilievo personale) che i costi dei canapai
erano sensibilmente più alti (quest’ultimo era il modo usato quasi
totalmente nelle nostre campagne).

(19)
Il metodo “a sassi” era quello usato quasi totalmente nelle
campagne del Comune di Poggio Renatico, vuoi per le dimensioni mai
troppo grandi del
màcero,
vuoi per la non eccessiva profondità e la relativa quantità d’acqua
in esso contenuta.

(20)
Molto interessante, anche se forse un po’ troppo sintetico, è
l’opuscolo, a cura di MAGDA BURANI e FRANCESCO FABBRI,

C’era una volta la canapa

…”, Ed. Comune di Anzola dell’Emilia, Anzola Emilia (Bo), 1997,
che però ha il pregio di fondere assieme una parte descrittiva, una
parte iconografica ed una parte storico-rievocativa fatta attraverso
interviste a persone che la canapa l’avevano veramente coltivata e
lavorata.