Sorgo e miglio per una alimentazione ecosostenibile. Una sperimentazione

Training Chef per l’utilizzo dei prodotti a base di sorgo e miglio, nelle mense scolastiche di Cento.
Il sorgo? detto anche “saggina”, è una pianta erbacea annuale appartenente alla famiglia delle graminacee; dà una spiga buona per l’alimentazione animale e i suoi fusti erano pure utilizzati per farne scope. Il miglio? graniglia buona per alimentare il pollame e i piccioni... Questo è quanto molti credono stando agli usi noti finora dalle nostre parti. E invece no, i loro semi, anticamente già molto usati anche per l’alimentazione umana, oggi sono tornati alla ribalta e se ne stanno rivalutando le proprietà nutrizionali, oltre alle possibilità di una coltivazione più ecosostenibile. E da un anno è in atto una sperimentazione che coinvolge alcuni poderi del bolognese, l’Università di Bologna (*) e il Comune di Cento che nello scorso dicembre ha dato il via al training degli Chef delle mense scolastiche per la preparazione di ricette a base di sorgo e miglio. I prodotti preparati durante il progetto, infatti, saranno sperimentati proprio nelle scuole del comune emiliano.

Il training è iniziato con un primo incontro conoscitivo presso il centro di cottura gestito dalla Soc. Coop. Gemos, concessionaria per il Comune di Cento della gestione delle mense scolastiche, dove hanno partecipato i collaboratori e i cuochi di Gemos, il Comune di Cento e la chef Pina Siotto, docente di cucina vegetale, antropologa e autrice.

La formazione Leggi Tutto

Aspettando la vespa samurai, l’UE vieta la difesa chimica contro la cimice asiatica

La cimice asiatica, che ha imperversato e devastato durante la scorsa estate i frutteti emiliani e italiani, è tornata in questi giorni di freddo autunno-inverno di “scottante” attualità per una decisione della Unione Europea, che ha vietato l’uso della sostanza chimica ritenuta, per ora, unico strumento di lotta efficace contro questo parassita polifago venuto da lontano, che si nutre di ben 300 specie vegetali nostrane, coltivate e spontanee, frutticole ed erbacee. Parassita che ha causato danni per centinaia di milioni, si stimano circa 600; nella sola Emilia-Romagna si contano danni per oltre 120 milioni di euro nel solo comparto delle pere; per le pesche siamo intorno ai 50 milioni, secondo le stime elaborate dal Cso, Centro Servizi Ortofrutticoli; ma dati allarmanti risultano anche in Friuli- Venezia Giulia, Piemonte e Toscana .

Si legge infatti sulla stampa (*) “ Bologna, 8 dicembre 2019 – Mentre da poco è entrato in vigore il decreto che autorizza l’introduzione della vespa samurai per combattere il proliferare della cimice asiatica, la Ue dice no alla ri-autorizzazione dell’utilizzo del chlorpyrifos-methyl, suscitando la protesta delle associazioni agricole. Anche il ministro dell’agricoltura Teresa Bellanova contesta lo stop. La vespa di origine giapponese, nemica naturale della cimice marmorata di provenienza cinese, intanto è stata testata in laboratorio per lo scopo e viene Leggi Tutto

Nuove regole per l’irrigazione

Nuove regole per la gestione dell’irrigazione: primo incontro
Al via gli incontri di confronto partecipato con gli attori del nuovo regolamento per la distribuzione delle acque nel comprensorio consortile. Il primo appuntamento è previsto per
venerdì 18 ottobre, alle ore 17.00 , a Castello d’Argile, presso la sala Polivalente in via del Mincio 1 .
Programma: – 17.00 Saluto di Michele Giovannini, assessore Agricoltura Comune di Castello d’Argile
– 17.15 Introduzione di Giovanni Tamburini, presidente della Bonifica Renana – 17.30 Relazioni illustrative a cura di Michela Serra e Michele Solmi, tecnici della Bonifica Renana
– 18.20 Dibattito – ore 19.00 Conclusioni
http://www.bonificarenana.it/servizi/notizie/notizie_fase02.aspx?ID=2048

Villaggio Coldiretti … in Piazzola

Dal 27 al 29 settembre Bologna ospiterà il Villaggio Coldiretti in piazza VIII Agosto (il mercato solito della Piazzola è sospeso), nel Parco della Montagnola e in Piazza XX Settembre.
Si potrà vivere un giorno da contadino tra le aziende agricole e i loro prodotti, sui trattori, a tavola con gli agrichef, in sella ad asini e cavalli, nella stalla con mucche, pecore, capre, maiali, conigli e galline, o nelle fattorie didattiche e negli agriasili dove i bambini possono imparare a impastare il pane o a fare l’orto. Ci sarà una vera e propria ‘Arca di Noè’ dove scoprire le piante e gli animali della fattoria italiana messi a rischio dai cambiamenti climatici e dall’invasione degli insetti ‘alieni’. Spazio al più grande mercato a chilometri zero con Campagna Amica dove acquistare direttamente dagli agricoltori provenienti da tutta Italia.
Il Villaggio sarà inaugurato venerdì alla presenza del ministro delle Politiche agricole Teresa Bellanova, e altre autorità nazionali e regionali, e vari rappresentanti della società civile, studiosi, sportivi e artisti che discuteranno su esclusivi studi e ricerche elaborate per l’occasione dalla Coldiretti.
Il programma in dettaglio su : https://villaggio.coldiretti.it/

Per la prima volta si potrà andare a scuola dagli agrichef per imparare a cucinare i piatti della nonna e le ricette salvaclima usando Leggi Tutto

Progetto Life AgriCOlture

Venerdì 20 settembre 2019 ore 9.00
Sala Consigliare dell’Unione Comuni del Frignano Pavullo nel Frignano (Modena)
PROGETTO LIFE agriCOlture
L’allevamento a contrasto dei problemi, connessi al cambiamento climatico, posti dal degrado del suolo nell’Appennino Emiliano
Evento aperto a tutti, a partecipazione libera. Presentano i beneficiari del progetto LIFE:
Consorzio di Bonifica dell’Emilia Centrale (coordinatore), Consorzio della Bonifica Burana, Centro Ricerche Produzioni Animali – CRPA e Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano
Dopo i qualificati interventi di apertura e saluto:

– 10.05 Presentazione del Progetto Dott. Aronne Ruffini Consorzio di Bonifica dell’Emilia Centrale – Project Manager LIFE agriCOlture
– 10.30 Inquadramento territoriale dell’ambito Appenninici di progetto Dott.ssa Carla Zampighi Consorzio della Bonifica Burana
– 10.50 Nuove prospettive della foraggicoltura di montagna Dott.ssa Maria Teresa Pacchioli Centro Ricerche Produzioni Animali – CRPA
– 11.10 Il ruolo del  pascolamento nella conservazione degli agroecosistemi Dott. Willi Reggioni Parco Nazionale dell’Appennino Tosco Emiliano
– Seguirà dibattito e conclusione della Dott.ssa Simona Caselli Assessore Regionale Agricoltura Caccia e Pesca
– 13.00 Buffet e ore 14.30 Nomina ufficiale del Gruppo tecnico di lavoro e discussione del Piano di Gestione e lavoro

Fonte e maggiori informazioni:

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Risorse irrigue e mondo rurale

Al MAF di San Bartolomeo in bosco (FE) Via Imperiale, 263
Domenica 10 marzo, ore 15.30
RISORSE IRRIGUE E MONDO RURALE
– Presentazione della mostra a cura di Sonia Lenzi
Il Canale Emiliano-Romagnolo nello sguardo di Enrico Pasquali
(Canale Emiliano-Romagnolo e Museo del Patrimonio Industriale di Bologna) con il patrocinio di: Regione Emilia-Romagna,
Istituto regionale per i Beni Culturali, Cineteca di Bologna, Comune di Bologna  (in parete fino al 3 aprile)
– A seguire pomeriggio di Studio su:
Risorse irrigue e mondo rurale tra storia e futuro
Saluti di : Pier Carlo Scaramagli (Presidente MAF)
Interventi di: Sonia Lenzi (CER) , Luciana Finessi
(Assessorato Agricoltura Regione Emilia-Romagna)
Stefano Calderoni  (Vicepresidente Consorzio di Bonifica Pianura di Ferrara) Alessio Zoeddu (Museo del Patrimonio Industriale di Bologna)
Stefano Pezzoli
(Presidente Consorzio interessati alle acque del Savena)
In conclusione buffet riservato a tutti gli intervenuti
** Info: MAF – Centro di Documentazione del Mondo Agricolo Ferrarese
 
– 0532725294  www.mondoagricoloferrarese.it-info@mondoagricoloferrarese.it

Lino e canapa in pianura.

Nella prima metà  del ‘300 nella valle Padana erano diffuse due coltivazioni erbacee: il lino e la canapa.
Il lino importato dall’Egitto e dall’Asia  Minore veniva coltivato nelle nostre zone temperate e umide per ricavarne la fibra tessile. Venivano utilizzati anche i semi per ricavarne farine ad uso terapeutico, come impiastri essudativi.

La canapa, anch’essa importata dall’Asia centrale, veniva coltivata per ricavarne fibra, semi e oli utilizzati nella preparazione di saponi e vernici

Il lino, pianta molto antica, è coltura e fibra più ricca, meno popolare, legata a costumi, consuetudini delle genti ricche che facevano lavorare la tela di lino per gli oggetti del corredo.
Il filo di canapa a differenza da quello di lino è ruvido, irregolare, secco arduo da addomesticare. Ma le filatrici e le tessitrici di una volta, prendendo fuori dai cassetti manufatti in canapa orgogliosamente, ci dicono[1]:

Questa è stata seminata, poi cresciuta, lavata, mondata, tirata. Veniva fatta la tela. Questa è quella che ho fatto io per mia figlia, morbida.Mia nuora con quattro di queste pezze di tela ha fatto il pizzo e le ha unite e ha fatto una tovaglia quadrata. Qui c’è un asciugamani. Per fare questa qui ci si metteva la stecca per potere passare il filo. Con il cotone, che è tutto uguale, non c’era bisogno di imbusnerl. Con la canapa era diverso, bisognava per farla metterci qui una stecca perchè stesse tirata.

(cosa vuol dire imbusnerla?)

Vede quello con il filo di canapa? è soffice . Non può fare la tela senza far uso di una colla con farina e tridel dal furmant . Si faceva bollire e poi con un bruschino si faceva una passata con quella colla e allora il pettine passava bene. Serviva per tenere divisi i fili. Perchè questi, uno deve andar su e uno deve andare giù. Ci voleva tanto tempo.Con il cotone si faceva meno fatica, ci si metteva meno tempo, il filo era tutto uguale, ma la tela era meno bella. I lenzuoli di cotone venivano duri, duri, che non servivano niente e duravano poco. La canapa invece è morbida e più resistente e si facevano anche le pezze per le donne.  I ricchi le pezze le facevano di lino con sopra ricamate le iniziali[2]

 Per la crescita delle piante e il procedimento di estrazione mediante macerazione e preparazione delle fibre era necessaria abbondante acqua.

La loro presenza in tutta la pianura emiliana orientale è infatti indissolubilmente legata alle zone di acqua ferma, stagna.

Sia la canapa che il lino  richiedono vasti spazi acquosi, maceri.

La coltivazione della canapa e del lino varia a seconda del tipo di terreno, del clima e della tradizione. Se nell’antichità  il lino era preminente rispetto alla canapa, poi andarono per un certo periodo, nel nostro territorio, di pari passo, poi la canapa prese il sopravvento.

Nella nostra pianura la canapa e il lino, maturi in giugno-luglio-agosto, venivano estirpati a mano dal terreno.

In Emilia la canapa veniva tagliata distinguendo gli steli maschi dagli steli femmine. Prima veniva tagliata a raso suolo, o estirpata, la canapa maschio, che maturava prima, e la canapa femmina che portava i semi veniva successivamente tagliata con la roncola, dopo alcune settimane. Gli steli raccolti venivano messi in fasci o mucchi della stessa lunghezza e legati in mannelli. I fasci lasciati prima ad asciugare all’aperto per un certo tempo, venivano poi immersi in acqua stagnante e venivano appesantiti con massi per far sì che rimanessero sommersi.

Nel territorio Sangiorgese esistevano vari maceri, stagni artificiali estesi, con le rive consolidate da pietre. I fasci rimanevano nei maceri dai tre agli otto giorni o più a secondo che l’acqua fosse completamente stagnante o avesse un certo deflusso. Le mannelle o mannelli venivano rimossi per far sì che la macerazione fosse uniforme: le donne erano adibite a tale lavoro che comportava la sosta a bagno nel macero per la lavorazione, gli uomini si interessavano di rimuovere i sassi che costringevano i fasci sul fondo e allo svuotamento dei maceri. La canapa così macerata veniva poi posta in mucchi perchè l’acqua potesse defluire completamente e poi aperta all’aria e al sole e sopra graticci per l’essiccatura totale. Gli steli di lino, più corti, subivano lo stesso procedimento di macerazione ed essiccazione.

Gli steli snervati dalla macerazione e dall’essiccazione venivano scavezzati, cioè si liberava il tiglio dallo stelo cercando di ottenere fibre il più lunghe possibli. Nell’antichità  erano le donne che nelle lunghe sere di inverno spezzavano gli steli e poi sfilavano le fibre.

Normalmente veniva fatta una lavorazione di scavezzatura o stigliatura a mannelli. Gli steli venivano maciullati con la gramola, un attrezzo che spezzava in più punti la parte legnosa dello stelo.

Alla fine del XIX secolo in Emilia veniva ancora usata la scavzadura o baura una macchina di legno che veniva fatta funzionare da un bue che girava in circolo trascinando una ruota di legno con mazze di ferro sotto alle quali venivano fatti passare i mannelli di canapa. La gramolatura avveniva in due tempi. La gramola aveva forme diverse a seconda del sito in cui veniva usata. In Emilia paese di forte coltivazione canapola erano più evolute. Spesso veniva fatta un’ulteriore operazione dello stesso tipo per liberare la fibra delle ultime tracce di legno[3]

Anche i fasci di lino macerati ed essiccati subivano una lavorazione per separare la parte legnosa dalla parte fibrosa, ma spesso avveniva fatta mediante battitura degli steli su una superficie rigida mediante mazzuoli o magli[4]

Ulteriore operazione per lisciare le fibre era la scotolatura, che consisteva nell’appendere le fibre ad un supporto e poi battere o lisciare i fasci con un attrezzo a forma di spatola (scotola) di legno. Tale procedimento era poco usato nelle nostre campagne.

L’ultima operazione consisteva nella pettinatura per liberare le fibre delle ulteriori impurità  e per spaccare le fibre più grosse. Per ottenere fibra più fine e morbida la pettinatura veniva fatta con pettini sempre più fitti.

I pettini, detti cardi perchè inizialmente nell’antichità  erano ottenuti dai fusti dei cardi spinosi, erano di legno con denti di ferro ed azionati dalle donne a mano. Spesso, quando si voleva una fibra particolarmente bella, erano professionisti che azionavano il cardo; questi lavoratori, si spostavano durante l’autunno e l’inverno da podere a podere con i propri attrezzi.

I prodotti finali della pettinatura e di tutti i lavori preparatori che precedono la filatura erano di due tipi: le sottili fibre pronte per il fuso o il filarino e la stoppa che rimaneva tra i denti dei diversi pettini usati.[5] 

Successivamente la coltivazione del lino è stata abbandonata e si può dire che l’Emilia , specialmente nei dintorni del ferrarese e quindi nel nostro territorio, sia stata sino alla fine della seconda guerra mondiale la maggiore zona canapicola.

L’avvento di tessuti industriali, con filati di origine chimica o di origine naturale ma trattati chimicamente e meno costosi rispetto a quelli di canapa e di lino, hanno fatto regredire tali coltivazioni in quasi tutta l’Italia già  nel periodo tra le due guerre mondiali.

In quel periodo anche i contadini stessi avevano cominciato a rifiutare di vestirsi con il tessuto di lino, di lana od usare in casa tela di canapa che loro stessi producevano, come invece avveniva un secolo prima.

Nella nostra pianura, alla coltivazione della canapa, andò via via sostituendosi la coltivazione della barbabietola da zucchero e la coltivazione di cereali. Ciò era dovuto in parte al fatto che l’Italia, come tutto il mondo europeo, era appena uscita dalla più grave crisi economica che i paesi industrializzati avessero sopportato e contemporaneamente sottostava alla politica dittatoriale del tempo che tendeva a far regredire il deficit granario.

Le bonifiche integrali che tendevano a prosciugare terreni per la cerealicoltura portarono ad un risanamento accelerato delle aree umide e incolte.

L’aumento demografico, stimolato anche con premi alla fertilità  alle madri prolifiche, richiedeva maggiori culture granarie a svantaggio delle culture foraggere comportando uno svantaggio all’allevamento che si andava via via trasformando da transumante e brado a stanziale e stallivo.

La politica autarchica, che imponeva l’utilizzo di prodotti nazionali, favorì il decremento dell’importazione di zuccheri dai paesi esteri produttori a favore della coltivazione bieticola, che, per altro, risultava meno onerosa come mano d’opera e fatica umana rispetto alla coltivazione della canapa.

Dagli scritti di Scheuermaier, che viaggiò per tutta l’Italia agricola, interrogando, fotografando e rilevando anche nei minimi particolari la realtà  rurale, si desume comunque una massiccia persistenza di una tradizione agricola tradizionale ancora strettamente connessa con l’artigianato rurale: produzione e consumo viaggiano ancora di pari passo. Ma le macchine agricole entrano nel gioco e l’avvento sempre più massiccio dell’era industriale nella nostra regione comincia a portar via dalle campagne le forze di lavoro che si avvicinano sempre più alla città.

Era normale per quei tempi che dalle famiglie mezzadrili i giovani, anzi le coppie giovani, intraprendessero ogni giorno lunghi tragitti a piedi per raggiungere le fornaci, le fabbriche che sorgevano nella periferia della città  per poi ritornare alla casa patriarcale alla sera dopo 12-14 ore di lavoro. Ciò portò ad un inurbamento che si accentuò moltissimo dopo il secondo conflitto mondiale.

(da “Storia di San Giorgio di Piano” di A. Bonora, A. Fini, M. Franzoni, in corso di stampa)

NOTE 

[1] Da un’intervista fatta a Lidia Cavani Nanni, che ha passato metà  della sua vita lavorativa in poderi a mezzadria del circondario della pianura bolognese: l’ultimo figlio l’ha “scodellato” a lato del macero sull’erba.
[2] Le  pezze non erano altro che le assorbenti igieniche attuali. Per i neonati, le donne fertili e gli ammalati venivano usati riquadri tessuti a mano. Dovevano essere manufatti morbidi, non irritanti.
[3] Il legno che veniva ottenuto dalla stigliatura, gramolatura degli steli (stecchi) veniva raccolto e serviva per far fuoco d’inverno. Era un fuoco poco consistente, ma vivace ed allegro con un odore particolare. Da bambina durante la II guerra mondiale sono stata in campagna, a Casadio, al riparo dai bombardamenti ed ho potuto seguire la lavorazione della canapa completamente, ma il ricordo migliore rimane per me il profumo acre e particolarissimo del fuoco degli stecchi: voleva dire caldo, riunione attorno al camino e favole e racconti degli adulti e noi bambini che ci assopivamo ammucchiati sullo scalino a lato del focolare.

[4] E’ spesso riscontrabile dalle nostre parti il patronimico Mazzuoli, Mazzoli, Mazzucchi, Magli.

[5] Sono degni di nota i vari nomi con i quali vengono identificati gli attrezzi a seconda del territorio in cui venivano lavorate le fibre della canapa e del lino. Rimandiamo al manuale dello Scheuermaier Il lavoro dei contadini per le varie terminologie.

(*) Nella foto in alto : antico telaio e tele di canapa nel Museo della civiltà  contadina di S. Marino di Bentivoglio 

 

La barbabietola da zucchero nella pianura bolognese.Vincenzo Tugnoli

L’importanza agronomica di questa coltivazione richiede particolare attenzione nell’applicazione delle pratiche di campo, soprattutto nella pianura, dove predominano suoli ad elevato tenore di argilla.
La barbabietola da zucchero appare, sulla base della esperienze fino ad ora acquisite ed in particolare in questi ultimi anni, come una coltivazione di difficile gestione, fortemente soggetta ai condizionamenti del clima e di errate applicazioni delle tecniche colturali. Negli ultimi 40 anni la resa in saccarosio ha subito flessioni annuali anche superiori al 20%; a partire dall’80 si registra una parità  rispetto ad ora, quasi a segnalare che innovazione tecnologica non abbia prodotto vantaggi.

Errori applicativi costano ora più cari, sia per l’elevato impegno economico richiesto sia per l’incidenza che possono avere su un reddito finale sempre più indirizzato al ribasso.
In un clima di vacche magre non è più ammesso seguire linee operative non idonee alle esigenze ambientali e tecniche richieste dalla coltura.
La tecnica risulta quindi l’unica arma in grado di apportare miglioramenti produttivi tali da soddisfare anche l’economia della coltura; prospettive di innalzamento dei prezzi di vendita delle radici di barbabietola all’industria di trasformazione, appaiono allo stato attuale improponibili ed insperati, per cui non rimane altra strada che valorizzare le produzioni agricole.
L’impegno in questo senso deve essere massimo, individuando interventi tecnici non proprio adeguati alle esigenze attuali, provvedendo ad operare cambiamenti in linea con i mutamenti colturali ed economici.
Non è certamente facile riconoscere gli errori, ma in un regime di restrizione economica, la volontà  di rivalutare i margini economici di una coltura importante come la barbabietola deve essere superiore. Non bisogna dimenticare quali benefici agronomici la sarchiata apporta a tutto l’avvicendamento; minime lavorazioni del terreno e semina su sodo di cereali, sono possibili solo grazie alle arature profonde apportate alla bietola. Diversamente la compattazione del suolo sarebbe sempre in crescita e finirebbe per preoccupare non poco il coltivatore, costringendolo nel breve periodo a dover ritornare alle arature per tutte le colture; l’aggravio dei costi sarebbe inevitabile e consistente e potrebbe pregiudicare la sopravvivenza dei cereali in molte zone.

Le scarse produzioni della annata che si è appena conclusa non debbono far nascere rimpianti e disaffezioni nei riguardi della barbabietola da zucchero. E’ comprensibile che aver chiuso la campagna con medie di saccarosio di 5,5 tonnellate ad ettaro contro le 6,9 dello scorso anno (che comunque non era stato favorevolmente apprezzato) non  facilita positive aspettative, anche se un titolo medio intorno a 16,5 gradi porta ad incassi finali più elevati rispetto alla semplice valutazione della resa in saccarosio. La produzione di zucchero è risultata inferiore di oltre il 30% rispetto alle assegnazioni per il nostro Paese, per cui le prospettive per il futuro fanno ritenere che esistano serie possibilità per risalire la china. Oltretutto i minori oneri comunitari a cui andremo incontro, associati al riconoscimento della regionalizzazione, fanno sperare in un significativo aumento del prezzo al produttore sia per questa che per la prossima campagna; evento insperato per le prospettive che vanno emergendo a livello europeo.

Al di là di tali benefici economici (seppur importanti) l’attenzione deve essere rivolta ad un miglioramento delle tecniche con l’obiettivo di portare ad una stabilità  delle produzioni tale da annullare l’alternanza di investimenti elevati (nelle annate favorevoli) ad altri più scarsi (subito dopo campagne avverse), condizioni che portano ad una mancanza di programmazione in un settore che non può convivere con chiusure di stabilimenti se non a scapito di un abbandono delle superfici nelle aree interessate. 

L’IMPORTANZA DEL TERRENO

Alla base di un corretto indirizzo colturale c’è a mio parare una valida preparazione del terreno che dovrà ospitare il seme di bietola. In questi ultimi tempi si assiste ad una sempre più marcata assenza di rispetto per il terreno. Le attrezzature che vengono impiegate per eseguire operazioni molto semplici, quali erpicatura, semina, sarchiatura e trattamenti, sono sempre più pesanti, con potenze elevate ma tali da accrescere il fenomeno del calpestamento e compattamento del suolo. Non voglio certamente auspicare il ritorno al passato con carrucole e corde che impedivano il transito dei mezzi di traino direttamente sul campo  ma rimanevano sulla capezzagna; voglio solamente sensibilizzare gli operatori sui danni che ripetuti e a volte inutili passaggi, possono arrecare alla struttura del suolo, danni che finiscono poi per ripercuotersi negativamente sul naturale sviluppo della pianta e quindi sulle rese finali.

La bietola rappresenta l’unica specie il cui prodotto cresce sotto terra, rispetto alle altre la cui valorizzazione è nella parte superficiale; ciò deve far riflettere sulla importanza che una valida strutturazione del terreno può rappresentare per la sarchiata. Errori in fase di preparazione del letto di semina peseranno fino alla fine del ciclo, portando a minori entrate economiche per il produttore.

Precipitazioni abbondanti o assenti, non sono una prerogativa di queste ultime annate, solo che in passato non lasciavano quegli strascichi che si vanno riscontrando sulla bietola. Ila bietola in condizioni di mal strutturazione non riesce a svilupparsi normalmente.

Nei nostri avi il rispetto del suolo era certamente all’apice delle concezioni tecniche. L’elevato costo richiesto dagli interventi preparatori impone una maggior oculatezza nella scelta  delle modalità operative, ma non deve portare ad un abbandono di tali interventi, solo per risparmiare sulle spese; i danni economici finali sarebbero ben superiori. La lavorazione del terreno incide sul totale dei costi di produzione per circa il 20%.

Analizziamo i diversi passaggi che si rendono necessari in  questo periodo per un miglior avvio della prossima campagna:

Erpicatura: l’affinamento finale del letto di semina è opportuno avvenga con tempestività, rimandando al pre-semina eventuali passaggi per rompere la crosta superficiale creata da piogge battenti invernali. La profondità di lavoro deve comunque essere limitata ai 4-5 cm, per non riportare in superficie zolle bagnate. L’eliminazione di infestanti presenti all’atto della semina, può essere realizzata con trattamenti chimici a base di disseccanti quali Glyphosate (Roundup o similari), Glufosinate ammonio (Basta), Paraquat+ Diquat (Seccatutto) a dosaggi variabili in base alla formulazione e da associare ai diserbi di pre-semina (solo il Basta è registrato anche per il pre-emergenza).

Rullatura: il ricorso a questo passaggio deve essere limitato ad una condizione di eccessiva sofficità del terreno; l’obiettivo deve essere quello di consentire una uniforme e regolare deposizione del seme, a tutto vantaggio di una pronta emergenza, che sfrutti l’umidità  presente nel terreno.

Esperienze pluriennali condotte dal sottoscritto pongono in evidenza i benefici effetti sulla produttività  arrecati dal letame; anche se le valorizzazioni di PLV appaiono contenute (intorno al 7-8%) con gli attuali chiari di luna l’agricoltura della pianura non può permettersi di lasciar perdere incrementi produttivi seppur minimi. Le stesse esperienze evidenziano pure i vantaggi arrecati dalla pollina distribuita alla dose di 0,5 t/ha in estate, mentre alcun beneficio economico viene arrecato dall’interramento della paglia di frumento, anche a dosi elevate.

Altrettanta validità  si può riscontrare con apporti di ammendanti e di altri materiali organici quali compost somministrati in autunno o in primavera, bio-lit,   guanito,phenix e fertiligne+ algomarine,distribuiti in pre-semina  e infine di fanghi.

Migliorare quindi le condizioni del suolo, con riduzione dei passaggi meccanici al minimo indispensabile e con somministrazione di organico, deve essere l’obiettivo che il produttore deve prefissarsi nell’immediato; solo in tal modo, a mio parere, sarà  possibile ottenere dal terreno la più favorevole risposta alle esigenze della bieticoltura italiana. 

COME CONCIMARE IN PRE-SEMINA

Sempre in tema di apporti nutritivi alla barbabietola, è importante affrontare il problema di come orientare la distribuzione dei concimi minerali, in particolare nel periodo che precede la semina.
Il consiglio ottimale in questi casi è di indirizzare i dosaggi  sulla base delle reali conoscenze (mediante analisi di laboratorio) sulle dotazioni esistenti nel suolo oggetto di coltivazione.
In assenza di tali importanti informazioni, si possono definire alcuni consigli pratici, estrapolati dalle dotazioni storiche medie rilevate negli anni. In base alle informazioni analitiche e sperimentali in mio possesso i consigli di concimazione fosfatica e azotata da attuare in pre-semina  e localizzati nello stesso solco di semina (esclusivamente per il fosforo), risultano i seguenti nelle aree della pianura Bolognese:

–       FOSFORO (kg/ha) 120 + 50 localizzati alla semina

–       AZOTO (u/ha) 90

Per quanto riguarda l’apporto di potassio le analisi dimostrano una elevata dotazione in quasi tutte le aree, per cui se ne consiglia l’impiego solo in caso di accertata carenza. 

LA DIFESA DEI PRIMI STADI

La difesa dagli insetti terricoli riveste, in questa ottica, un ruolo fondamentale per un favorevole avvio dello sviluppo della coltura, ciò anche perchè, una volta accertata l’azione di questi parassiti, risulta impossibile adottare interventi chimici di rimedio; non essendo possibile infatti raggiungere  per contatto gli insetti, l’efficacia dei principi attivi viene vanificata. Allo scopo di prevenire questi attacchi, già da tempo, si fa ricorso alla geodisinfestazione, localizzando sulla fila di semina appositi prodotti in possesso di attività letale nei confronti dei parassiti presenti nel terreno (Elateridi, Blaniuoli, Scutigerella Atomaria,) e grazie alla loro sistemicità permettono di controllare anche l’ Altica.

Negli ultimi anni (dal  1997) questo tipo di difesa chimica localizzata alla semina, è stata in gran parte (58%) sostituita dalla fitoprotezione applicata alla confettatura; in pratica all’atto della confettatura ( aggiunta al seme, per classi di calibro, di una miscela in polvere di materiali organici ed inorganici per renderlo sferico) che segue la prepulitura, calibratura e levigatura del seme, vengono inseriti fungicidi specifici quali il tradizionale TMTD (efficace per Phoma e Alternaria)  e recentemente sostituito dall’Hymexazol (valido anche per Aphanomyces e Pythium) il cui nome commerciale è Tachigaren, in grado di estendere la protezione anche alle radici delle giovani piantine. Al di sopra della massa confettante, prima della pellicolatura finale, viene inserito l’insetticida, rappresentato fino ad ora dal principio attivo Imidacloprid , commercialmente denominato Gaucho; la dose inserita per unità di 100.000 semi è pari a 45 grammi. Con tale moderna metodologia di difesa, si è ridotto di 10-15 volte l’apporto chimico rispetto alla geodisinfestazione localizzata, venendo in contro alle esigenze ecologiche e per una miglior salvaguardia dell’operatore.

L’evoluzione è però avvenuta con celerità  anche in questo campo; al Gaucho si aggiungeranno infatti già  dalla prossima campagna nuove molecole da inserire nella confettatura. Si tratta  del Teflutrin aggiunto al Gaucho il cui nome commerciale diventa Gaucho Montur, e del Thiomethoxam denominato Cruiser.

Il prezzo di vendita di questi nuovi prodotti è¨ di 36,15  Euro per unità  che corrisponde a 54-57  Euro per ettaro. 

LA  LOTTA ALLE INFESTANTI

Il problema delle malerbe assume un ruolo fondamentale per la salvaguardia del reddito della barbabietola; una trascuratezza del problema potrebbe portare ad appesantire le spese, senza un valido ritorno in termini di produttività . La scalarità  delle nascite delle infestanti, rende difficoltosa l’individuazione di programmi di intervento unitari e risolutivi;

Lavorazioni anticipate dei letti di semina, adottate in questi ultimi anni, hanno consentito programmi di semina più elastici rispetto al passato, valorizzando, in certe condizioni, l’impiego degli erbicidi ad azione totale per l’eliminazione di infestanti a nascita autunno-invernale e, con semine più tardive, anche di chenopodiacee; attenzione ad operare in questo caso in pre-semina, poichè il solo  Basta è registrato per un uso di pre-emergenza. Nell’ottica di ottimizzare i costi e massimizzare gli effetti nella lotta alle infestanti è quindi fondamentale prendere in debita considerazione l’epoca di semina, oltre che la tipologia delle infestanti e la natura del terreno al fine di scegliere la tecnica di intervento, i prodotti e le dosi più giuste da impiegare.

L’impiego delle miscele per un miglior rapporto efficacia-costo. Fino ad alcuni anni addietro il diserbo di pre prevedeva l’utilizzo di un principio attivo ad azione residuale, a dosaggi elevati; la speranza era di riuscire a controllare le malerbe con un solo intervento. Con il passare degli anni ci si è reso conto che tale soluzione non poteva essere risolutiva, per cui, dovendo ricorrere ad ulteriori passaggi, si è ritenuto di abbassare le dosi, anche per evitare aggravio di costi, difficilmente sopportabili da parte del produttore. Dai 4-5 kg/ha si è passati ai 3-3,5, per poi giungere ad impieghi associati di più principi attivi a dosaggi ancor più contenuti (2 kg/ha). Le recenti esperienze acquisite dal sottoscritto indicano nella seguente miscela di più principi attivi, la miglior tecnica con un basso costo:

–    GOLTIX 0.8/1 + PYRAMIN 0.8/1 + VENZAR 0.2

La valorizzazione del reddito è¨ possibile solo applicando al meglio le tecniche. Non sempre risparmiare può essere la strada giusta; può portare a penalizzazioni produttive superiori al risparmio ottenuto.

Vincenzo Tugnoli  (Associazione Nazionale Bieticoltori)

Prime esperienze di bietola biologica. Vincenzo Tugnoli

Dopo due anni di sperimentazione  le tecniche agricole adatte ai nostri ambienti, appaiono più chiare; problema principale il controllo delle malerbe. Ancora da valutare i processi di trasformazione in zucchero biologico.

Coltivazione biologica Non si registrano però coltivazioni di barbabietola atte a produrre zucchero biologico.
In Europa questo tipo di tecnica è gà  in fase di avvio nel settore bieticole, con alcune migliaia di ettari in: Svezia (600), Inghilterra (350) Danimarca (100) ed ora anche in Germania e Svizzera.

Il fatto che la barbabietola in Italia non sia ancora stata ampiamente coinvolta da questo sistema di coltivazione, è molto strano e preoccupante. L’utilizzo di zucchero tradizionale per la produzione di alimenti con il riconoscimento biologico, è stata fino allo scorso anno consentita da una deroga prevista dalla stessa normativa in essere e che regola la definizione di coltivazione biologica. Tale deroga era però valida fino al 1 aprile del 2003 (Parte C: Ingredienti di origine agricola non prodotti biologicamente, di cui all’art.5, paragrafo 4 del Reg. CEE 2092/91); a partire da quella data tutto il materiale utilizzato per la produzione di cibi biologici dovrà derivare da prodotti agricoli ricavati seguendo esclusivamente le tecniche previste dalla legge 2092/91, compreso quindi anche la barbabietola e lo stesso zucchero.
Alcune domande appaiono ovvie ed urgenti: perchè di questo problema il nostro settore bieticolo-saccarifero non se ne interessa? Anzi, al contrario, si registra un aumento della produzione di zucchero più sofisticato e lavorato! Se il biologico sta prendendo sempre più diffusione fra i consumatori italiani, perchè trascurare questo tipo di produzione da parte del settore bieticolo-saccarifero? In particolare se  si tiene conto della scadenza della deroga che riguarda lo zucchero per la produzione di alimenti definibili con il termine biologici, sarebbe a mio giudizio opportuno un ripensamento, soprattutto tenendo in considerazione quanto sta prospettandosi in altri Paesi Europei.
Non si comprende per quale motivo solo il settore bieticolo-saccarifero non ha ancora preso coscienza di questa realtà  che va emergendo, pur nella consapevolezza che la richiesta potrà rappresentare una percentuale più o meno modesta dei consumi nazionali (sarà il mercato a definirla).

Tenendo poi in considerazione la normativa vigente che prevede un periodo di conversione del terreno di 12 mesi (lasso di tempo per una purificazione dalla chimica), prima di poter etichettare come biologico il prodotto agricolo coltivato, si può comprendere quanto siamo in ritardo. Anche iniziando ora una programmazione di investimenti, non sarà possibile definire biologica la barbabietola prodotta prima dell’estate 2005; unica possibilità ricorrere ad aziende agricole già  convertite al biologico (la contrattazione è però già conclusa e comunque la programmazione della rotazione in queste aziende avviene con largo anticipo, come previsto dalla stessa normativa). Se ne potrà  riparlare non prima del 2005. 

LO ZUCCHERO BIOLOGICO

Per produrre alimenti e bevande biologiche sarà quindi necessario, con la scadenza nel 2003 della proroga, utilizzare dolcificanti alternativi (come il miele) oppure zucchero di importazione proveniente (stante le attuali previsioni in Europa) quasi certamente da altri Paesi extra europei e più precisamente ricavato  dalla canna.

La normativa in questo caso prevede  (art.11) la possibilità  di commercializzazione  unicamente quando: “sono originari di un paese terzo figurante in un elenco da stabilire con decisione della Commissione ..o sono stati controllati da un organismo di controllo. Anche in questo caso è però operante una deroga (paragrafo 6): l’importatore o gli importatori di uno Stato membro sono autorizzati dall’autorità  competente dello stato membro a commercializzare fino al 31/12/2005 prodotti importati da un paese terzo che non figura nell’elenco, purchè forniscano all’autorità competente dello stato membro importatore prove sufficienti che i prodotti in questione sono stati ottenuti secondo norme di produzione equivalenti a quelle definite all’art.6, sono stati sottoposti a misure di controllo equivalenti a quelle di cui agli art. 8 e 9

Non è più semplice produrre in casa l’occorrente al nostro fabbisogno; non solo per mantenere al nostro interno i guadagni, ma anche per  la sicurezza dei controlli?

Sarebbe quindi urgente avviare un piano di investimenti a barbabietola da destinare alla produzione di zucchero biologico anche in Italia. 

Per la trasformazione delle radici prodotte con le tecniche biologiche in zucchero, è consentito utilizzare esclusivamente i prodotti inseriti nella normativa (allegato VI “ sez.B ausiliari per la fabbricazione che possono essere utilizzati nella trasformazione di ingredienti di origine agricola), e più precisamente: Carbonato di sodio o idrossido di sodio – Acido solforico – Isopropanolo (per la cristalizzazione) 

LE TECNICHE DI CAMPO

La normativa prevede un piano di consegna e trasformazione completamente autonomo, ben distinto da quello tradizionale. Si potrebbe ipotizzare un ritiro e relativa trasformazione in sugo, in epoca anticipata o ritardata rispetto a quella tradizionale; a mio parere sarebbe più opportuno un avvio precoce per consentire di prevenire e rendere meno incisiva l’azione distruttiva di Cercospora, Oidio e Rizomania, nonchè l’influenza di erbe infestanti.

La tecnica di coltivazione per produrre zucchero biologico dovrà trovare indubbiamente una maggior attenzione da parte del bieticoltore; alcuni passaggi applicativi, come per esempio la lotta alle malerbe (principale problema), dovranno subire orientamenti diversificati rispetto agli attuali. Le stesse prove condotte dal sottoscritto in questi ultimi due anni hanno messo in evidenza la validità  di interventi meccanici con aratro rotativo, erpice a lame rotanti, strigliatore, accompagnati da 2 interventi di sarchiatura alla chiusura delle file; la valorizzazione economica ha raggiunto anche il 23% rispetto all’applicazione di tecniche tradizionali.
Chiaramente dovendo affinare le tecniche e renderle più specialistiche è importante utilizzare le più moderne tecnologie. Risulta basilare partire da una conoscenza delle reali dotazioni di nutrienti nel terreno, per impostare un valido piano di fertilizzazione, visto nell’ambito della rotazione anche perchè la normativa prevede l’uso esclusivo di concimi di matrice organica o naturale, nonchè l’inserimento di leguminose; risulta quanto mai utile per la nostra bieticoltura in generale (quindi non solo quella biologica) caratterizzata da ampia diffusione di nematodi, l’inserimento di colture biocide quali rafano e senape allo scopo di migliorare non solo la sanità dei terreni ma anche la fertilità, grazie all’apporto di sostanza organica in suoli in via di depauperamento con l’applicazione di tecniche intensive. L’ausilio dell’irrigazione a micropioggia o a goccia può consentire una valorizzazione ancor più incisiva della produzione, diversamente penalizzata durante il ciclo da attacchi parassitari e climatici, difficilmente controllabili con le tecniche consentite.
I risultati produttivi delle prove ANB sembrano abbastanza lusinghieri, vicini a quelli del convenzionale. Problema principale da risolvere, il controllo delle malerbe, in particolare per contenere una possibile fonte di infestazione per gli anni successivi.
Spazio per miglioramenti tecnici ne esistono; determinante anche in questo caso la sperimentazione per individuare le migliori linee operative. La parte agricola è pronta. All’Industria la palla per iniziare questa nuova partita, nell’interesse dell’ intero settore. 

VINCENZO TUGNOLI  Responsabile Servizio Tecnico ANB

(articolo tratto da Terra e Vita n 18/02) 

BOX A
LE TECNICHE DA ADOTTARE PER LA BARBABIETOLA BIOLOGICA

Il regolamento 2092/91 e i successivi aggiornamenti prevedono esclusivamente:(articolo 6):

–       Conversione del terreno  un intervallo di 12 mesi fra coltura tradizionale e biologica,

–      Sementi- utilizzo di piante portaseme ottenute con tecniche biologiche e trattate solo con p.a. autorizzati; una deroga in scadenza al 31/12/2003 autorizza sementi tradizionali quando è dimostrabile l’impossibilità  a procurarsene sul mercato comunitario.

–      Concimi:  inserimento di leguminose nell’avvicendamento e uso di fertilizzanti di origine organica o naturale riportati nell’allegato II;nelle prove ANB sono stati distribuiti in pre-semina Phenix e Bioilsa;

–    Antiparassitari: utilizzo di varietà  resistenti a malattie, rotazioni adeguate, protezione naturale con siepi e predatori, insetticidi derivati da piretro naturale o di sintesi (deltametrina, lambdacialotrina) o estratti dall’albero di Neem (ozadiractina), fungicidi come idrossido e ossicloruro di rame, poltiglia bordolese, zolfo, oli vegetali e animali e pur sempre riportati nell’allegato II; nelle indagini ANB sono stati utilizzati estratti da Chrysantemum cinerariaefolium per altica e cleono (2 interventi), Bacillus thuringiensis per la mamestra (1 trattamento), zolfo e rame per oidio e cercospora (2).

–       Diserbo: interventi meccanici o bruciatura delle infestanti; nella nostra sperimentazione si è operato con erpice a lame rotanti Burato, erpice strigliatore in pre-semina, seguiti da interventi di sarchiatori rincalzatori alle 4-6 foglie e sarchiatura finale alle 8 foglie.  
 

ATTREZZATURE MECCANICHE PER IL CONTROLLO DELLE   INFESTANTI

IN USO IN EUROPA  

  

I masadur (I maceri). Luciano Manini

Se parlare di maceri (come tutto ciò che riguarda la gente che in passato lavorava la terra) per coloro che parlano e/o scrivono sull’argomento, attingendo a fonti bibliografiche o comunque al di fuori del che cosa è lo specifico, in certi casi emergono chiari il pressappochismo, la scarsa conoscenza, in qualche caso la mistificazione; per chi ne parla avendo vissuto quella realtà  dall’interno non corre il rischio suddetto o delle imprecisioni o delle superficialità  circolanti in materia sotto l’aspetto tecnico, ma quello di considerare ovvio o dare per scontati determinati fatti, conoscenze, azioni o altro che, per chi non ne è addentro, può essere utile o importante almeno come chiarimento.

Ciò premesso, cominciamo col vedere i maceri: costruiti in profondità  e senz’argini rispetto al piano del terreno, poi riempiti d’acqua per la macerazione della canapa e altri usi, in quella palude che già  i romani cominciarono a bonificare, centuriare, coltivare. Poi, fra alterne vicende di riallagamenti, abbandoni e riprese di prosciugamento, si giunge fino all’ultima definitiva bonifica; dopo la quale sono venute in essere queste che possono essere definite vere e proprie costruzioni. Quindi i maceri si trovano in un territorio ben definito (parleremo di quelli della provincia di Bologna) che, data la loro struttura nel luogo, hanno funzioni plurime, varianti nei diversi periodi dell’anno e, se il rapporto fra conduttore e proprietà  lo permette o non, possono variare anche gli usi e le funzioni stesse.

Di maceri ne esistono di diverso tipo: per dimensioni (specie in lunghezza, da una decina fino oltre i cento metri; la larghezza e la profondità  variano notevolmente a seconda del tipo) difficilmente se ne trovano di uguali .

Non entriamo ancora nel merito tecnico dell’argomento in quanto sono d’obbligo, per capire che cosa è un macero, alcune considerazioni di carattere generale, dalle quali non possiamo prescindere. Per fare questo non ci serviremo di bibliografie, enunciazioni verbali, iconografie d’archivio, raccolte museali… appartenenti alla dottrina ufficiale, in quanto non sempre affidabili, non sempre dotati della necessaria cognizione di causa, anche da esperti, veri o presunti. Lo scrivente preferisce fare da solo (con tutti i rischi che questo comporta), approfittando della propria diretta esperienza di anni di mezzadro prima, e di altri anni di òvre (bracciante) poi; durante i quali ha avuto occasione di lavorare in parecchi tipi di macero; inoltre, ha ampliato la propria conoscenza ed esperienza in molti anni di ricerche sul territorio, a tutto campo. Per entrare nell’intimo dell’argomento sarebbe opportuno usare un linguaggio idiomatico ma non essendo questo possibile (per ovvie ragioni) affronteremo l’argomento in lingua e, per quanto possibile, in termini appropriati sotto il profilo tecnico-pratico, senza aloni di letterarietà  dottorale che sarebbero fuori luogo.

Il macero, nella nostra storia, cultura, vita, condizioni, lavoro, linguaggio e quant’altro, se non è inquadrato nella sua oggettività  iconologica (come insegna Erwin Panofsky), non può essere culturalmente credibile, nè storicamente attendibile. Per esserlo deve essere misurato col metro culturale e linguistico della gente che l’ha vissuto; poi, eventualmente, si potranno ipotizzare unità  di misura diverse, sempre che non snaturino il concetto. Quindi, estrapolare l’argomento da detta oggettività , perde il proprio significato, l’essenza, senso, spirito… e può essere qualsiasi cosa.

Una corretta metodologia di ricerca ci impone, per avere un risultato valido ed attendibile come documento, di ricercare la storia e la cultura là  dove sono, così come sono, per quello che sono inoltre, nel nostro caso, è indispensabile, in quanto cultura orale, la conoscenza dell’idioma. Il macero è legato ad azioni, attrezzi, elementi che sono propri dei vari aspetti del lavoro del macero stesso e/o che sono legati, direttamente o indirettamente, a quelle operazioni e che hanno un nome e un senso là dove queste avvengono; a cominciare dalla costruzione del macero, nella sua messa in opera, fino all’ultimo e più svariato uso che se ne possa fare, compresi tutti i lavori per la sua conservazione e mantenimento strutturale.

Questo idioma non regolato, senza norme riconducibili ad alcun codice linguistico se non a se stesso; confrontato con vocabolari, sia in lingua, sia in dialetto bolognese, troviamo parole che esistono nei vocabolari e non in esso idioma e viceversa, quindi mancanza di parole corrispettive dello stesso elemento; quando queste esistono non sempre hanno lo stesso significato o sono la stessa cosa; es. C.   Coronedi Berti VOCABOLARIO DIALETTO BOLOGNESE – ITALIANO: il nostro masadur (it. macero) lo definisce masnadur, che per noi è il plurale della parola italiana macinatore. Questo ci dimostra che se portiamo un linguaggio fuori dal proprio ambiente o ambito d’azione, probabilmente non serve, subisce pseudomorfosi, perde il proprio senso, quindi sparisce naturalmente; ma se esiste è certo che ha una sua precisa funzione.

Per contro: nel proprio ambito ed ambiente non servono altri linguaggi (codificati o non) ma serve quel termine per capire in tutto il suo insieme l’argomento di cui si parla. Questo dialetto non è gergo di una categoria ma lingua, codice di comunicazione per tutti e, per chi si occupa seriamente di questo tipo di etnografia, è paradigma di tutto ciò che riguarda la cultura, il grado di evoluzione, la civiltà, la storia della gente dei campi e ognuno dei propri strumenti, azioni, operazioni, e quant’altro di questo enorme giacimento culturale.

Le parole componenti questo linguaggio assumono ancora maggiore importanza in considerazione della oralità  della cultura alla quale appartengono e che sono state da essa stessa prodotte per l’esprimersi delle persone e trasmettersi, per secoli, di generazione in generazione, l’universalità  di tutti i valori, in esse contenuti. Quindi: o conosciamo questo idioma o non potremo conoscere nell’intimo, nell’essenza, nello spirito questa entità  culturale. Chi scrive non ha mai udito parole, nè letto un colore comportamentale o ambientale che non fosse astratto da quell’esistere; nè un accenno ad un odore che, anche privi di vista, ci dice il periodo dell’anno, l’eventuale lavoro che si sta facendo, la condizione del macero o altro; che cosa ci comunica l’ambiente del macero con i suoi silenzi, o le varietà  di suoni, rumori, voci (anche improvvisi) che giungono al nostro udito, che col linguaggio si trasmette e viene indubitabilmente percepito da chi lo vive; così   dicasi per ogni qual cosa che riguarda la percezione del tatto.

Il macero rappresenta una grossa fetta del nostro passato e ne ha fortemente condizionato la vita di noi che l’abbiamo vissuto contadino. Tralasciamo il concetto intellettuale, accademico e quello di città  (solitamente di stampo borghese) che, più che darci la definizione di contadino, definiscono loro stessi al contadino medesimo. Per la gente campagnola il solo, l’unico contadino è quello riconosciuto dalla propria entità  culturale, cioè il mezzadro o colono; tutti gli altri non sono contadini, come sono impropriamente definiti dalla dottrina ufficiale e dal borghese di città , rispetto al significato da essa gente dato; la quale si divideva in varie appartenenze ben definite, secondo una scala gerarchica che andava dai proprietari terrieri giù fino ai mestieri della fame e ai barboni questuanti per la propria sopravvivenza. La non conoscenza del che cosa è un contadino è fonte di malintesi fra le tre entità  culturali ed è facilmente verificabile: basta sentir parlare un cittadino o leggere certe pubblicazioni riguardanti la materia e ce ne accorgiamo subito.

A questo punto è d’obbligo qualche domanda: che cosa è il macero per il contadino? e per chi non lo è?  inoltre: che cosa è il macero per ognuna delle tre entità  culturali?

Per la parte dotta lasciamo la risposta agli accademici, anche se non sempre è la stessa dei risultati della ricerca sul campo; per il cittadino è un concetto molto vago, incerto, che non va oltre la conoscenza di abitatore del contado e che lavora la terra, anche se altre categorie campagnole lavorano la terra senza essere contadini. Questo per chiarire che quando parliamo di contadini non sempre intendiamo la stessa cosa e, per non incorrere in sviste è bene verificare che cosa è il contenitore di cultura dal quale esce, sia esso persona o documento, altrimenti si parte col piede sba­gliato; il macero, se non un paradigma, ne è certo un esempio. Perfino nella conoscenza stessa della gente di campagna il macero può essere co­sa diversa da famiglia a famiglia: per il contadino è ciò che gli permette la proprietà; per un piccolo proprietario o un affittuario è ciò che egli stesso se ne fa.

Parlando, qualche volta, con appartenenti a ceti alti della cultura, di quello che è stato il nostro passato si odono affermazioni come: “dettagli trascurabili”, “particolari di poca importanza”, “aspetti marginali”… ma a rifletterci e a tener conto della oggettività di quella realtà, nasce spontanea qualche altra domanda: chi lo stabilisce?, con quali criteri?, con quale competenza?, che cosa è questo chi?.., gli addetti ai lavori cosa ne dicono?, danno lo stesso valore e lo stesso significa­to alla stessa cosa come gli appartenenti alla dottrina canonizzata?… es. prendiamo un baňcàtt da lavær: per l’addetto ai lavori è ovvio che sì intende lavare la canapa per chi non è addetto, certo, può essere un “dettaglio trascurabile”! ma chi doveva lavare la canapa, come avrebbe potuto fare, in quella circostanza, senza questo “dettaglio”?.., diffi­cilmente ci sarebbe riuscito, specie nei maceri di ultima concezione; lo stesso è per qualsiasi altro attrezzo o lavoro o parola… non solo nei lavori del macero ma di ogni e qualsiasi altra attività della gente che lavora la terra. Qui appare chiara la differenza di importanza della stessa cosa nei vari concetti cuIturaIi e che, generalmente, si valutano gli argomenti secondo la propria ottica conoscitiva. Poiché “l’occhio vede ciò che la mente conosce” (affermava sovente J. W. Goethe) ci ac­corgiamo della (forse involontaria) pratica egemonica della intellighenzia accademico-intellettual-amministrativa, la quale, astratta dal con­cetto reale dell’argomento, proietta una visione distorta su una chiara oggettività delle altre entità culturali e non solo; forte di questa sua funzione egemonica le rende subalterne, quando addirittura non le mistifica o le cancella.

Quando l’etnologia e con essa l’etnologa Prof.ssa L. Faldini (catte­dra all’Università di Genova) ci insegnano, nella ricerca, di partire sempre dall’indigeno, ci indicano anche il che cosa e il dove. Inoltre, an­che se l’indigeno non ne è consapevole, il problema si pone altresì in senso inverso; così per il concetto della gente di città, accademici, intellettuali, “esperti” e per le genti di montagna e campagna. Se le do­mande su ciò che ricerchiamo sono pertinenti alla ricerca stessa, se è corretta la metodologia d’indagine, se è attenta e rigorosa l’analisi, nel quadro di familiarità con temi e concetti di panofskiano insegnamen­to, il risultato è scientificamente attendibile; e come tale, da qualsiasi parte lo si esamini è pari ad un risultato matematico: non cambia. Questo ci dice pure che ogni entità culturale ha una sua unità di misura, che nasce dall’entità medesima, per misurare sé stessa e le altre. Ma, mentre per la cultura con la ‘C’ maiuscola abbiamo biblioteche, ar­chivi, vocabolari e quant’altro, per la cultura di città abbiamo vocabolari di Dialetto Bolognese – Italiano, parlanti, raccolte bibliografiche ed altro; per la campagna e la montagna abbiamo quasi esclusivamente l’oralità, l’idioma; che è biblioteca, archivio, enciclopedia, vocabola­rio… in somma: quasi tutto il magazzino del nostro sapere, per conoscerne l’essenza, lo spirito… di questa realtà.

Per cui, per ognuna delle entità culturali, un “aspetto marginale” può essere elemento molto importante nella conoscenza delle altre, non solo in se: ma anche perché quell’aspetto marginale, quel dettaglio trascurabile, messo insieme ad un altro e ad un altro ancora, forma il reticolo, il plurisfaccettato mosaico del quotidiano che è l’oggettività di tutto ciò che è l’autoctono nelle sue problematiche; al pari del sistema periodico degli elementi composta da Mendeleev, dove ogni elemento ha valenze per aggregarsi con altri e formare composti, poi materia; che è la storia, la cultura, la civiltà, la vita in quel luogo, per quella gente, da analizzare poi nel­le pseudomorfosi di tempo

 Per chiunque si occupa di questo tipo di etnografia in modo corretto, per un lavoro scientificamente attendibile (fra questi l’ex
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