Gastronomia in Emilia Romagna
LA
BONDIOLA POGGESE
Nell’ambito
della grande famiglia degli insaccati bolliti, vorrei proporre al
lettore una specialità che vanta già una sua tradizione, anche se
non molto profonda nel tempo: la bondiola poggese.
Molti la classificano come stretta parente della salama da sugo
ferrarese, alcuni l’avvicinano al cotechino, altri allo
zampone modenese, altri ancora la dicono derivata da corrispondenti
salumi veneti o da insaccati romagnoli; in realtà la bondiola occupa
già da svariati lustri un suo posto personale, ormai non più
legato soltanto al Comune di Poggio Renatico. In definitiva,
sta “invadendo” pure le province di Bologna e Modena.
Ma vorrei aggiungere che, nella stessa provincia di Ferrara, di cui
Poggio fa parte, le resistenze ad una sua espansione (dovute alle
tradizioni culinarie sia cittadine che provinciali e collegabili alla
“locale” salama da sugo) sono abbastanza forti, ma si vanno
sempre più attenuando.
Ma
perché possiamo chiamarla ”bondiola poggese”? La ragione
è molto semplice: questo “salume da pentola” si
differenzia molto dagli insaccati veneti o da quelli lombardi; posso
affermare che la sua origine è romagnola e dico questo
per due motivi:
1)
c’è un’affinità evidente con il Bel-e-côt,
tipico delle zone di Bagnacavallo e di Lugo, tanto per la
conformazione che per la composizione; ecco perché vedo un’analogia
con i salumi di tale parte della Romagna;
2)
la provenienza della famiglia Montanari da quelle zone:
infatti arrivarono nel bolognese (e successivamente nel ferrarese)
nella seconda metà dell’Ottocento.
Ma
andiamo con ordine. Esaminiamo dapprima il punto 1), cioè il salume
in ambito gastronomico, e successivamente il punto 2), cioè la
storia della Salumeria Montanari.
Cominciamo
con questo insaccato di maiale:
BONDIOLA
POGGESE - LA RICETTA -
Ingredienti
fondamentali
capocollo;
cotenna
battuta;
spezie,
per insaporire;
lingua
di maiale.
la
cottura prevede un tempo superiore alle quattro ore; così
facendo, l’insaccato perde gran parte dei suoi grassi; diventa
in tal modo assai più digeribile; è
molto meno piccante della salama da sugo; acquista
un sapore che, pur se un po’ asprognolo, risulta assai gradevole.
Scritto in Gastronomia in Emilia Romagna | Poggio Renaticoleggi tutto | letto 975 volte
Inserito da redazione il Lun, 2018-05-07 05:53
Friggione
bolognese
Presentazione.
Nato
dalla tradizione contadina bolognese, il friggione è entrato a far
parte della gastronomia tipica di Bologna e provincia. La cucina
petroniana è fatta di semplici piatti ma dal gusto accattivante; se
il cotechino viene servito con il purè di patate o le lenticchie,
anche il bollito misto ha due alternative: la salsa verde o il
friggione. Quest’ultimo accompagna pure la salsiccia, fritta o ai
ferri, oppure la bistecca di manzo; inoltre si abbina molto bene alle
grigliate miste di carne. E’ pure un’ottima alternativa alle
patatine fritte. Il friggione era considerato fino agli anni Sessanta
del secolo scorso un alimento “povero”, ma con il trascorrere del
tempo è passato dalle tavole contadine ai ristoranti più rinomati
della città; inoltre da diversi anni è diffuso in tutta
l’Emilia-Romagna. E’ certamente degna di menzione l’attuale
Sagra del friggione che si tiene annualmente a Fabbrica, una piccola
frazione di Imola, da fine Aprile alla prima decade di Maggio, presso
il Centro Sociale che porta il nome di questa località.
L’antica
ricetta ottocentesca
Parlando
del friggione bolognese (frizòn, come nome dialettale
della “bassa bolognese rustico orientale”, e frizàn
nel vernacolo cittadino) posso riferire che questa ricetta è
stata rintracciata in un manoscritto datato 1886 che apparteneva alla
signora Maria Manfredi Baschieri; le indicazioni prevedevano i
seguenti ingredienti:
1)
4 kg di cipolle bianche;
2)
300 gr. pomodori pelati freschi;
3)
1 cucchiaino di zucchero;
4)
1 cucchiaino di sale grosso;
5)
2 cucchiai di strutto.
La nuova ricetta
Oggi
però questa ”originaria” ricetta, depositata il 19 novembre
2003 presso la Camera di Commercio di Bologna dall’Accademia
Italiana della Cucina - Delegazione di Bologna dei Bentivoglio, è
stata notevolmente rivisitata, sia nelle aggiunte che nella quantità
degl’ingredienti da utilizzare, per adattarla agli odierni gusti
culinari.
Così
nel 2010, la stessa Delegazione, con un nuovo atto notarile stilato
il 14 maggio 2008, ha depositato presso la medesima
Camera di Commercio la nuova versione riveduta e corretta che
prevedeva questi ingredienti:
Scritto in Area Metropolitana - ex Provincia | Gastronomia in Emilia Romagnaleggi tutto | letto 4500 volte
Inserito da redazione il Sab, 2018-05-05 07:47
Tagliatelle
all’ortica con salsiccia e sugo. Dino Chiarini
Nell’agosto del
1970 una trentina di “temerari” malalberghesi diedero vita, tra
l’ultima settimana di agosto e la prima settimana di settembre,
alla “Sagra di Fine Estate”, una festa paesana che univa
la gastronomia locale ai prodotti ortofrutticoli tipici, coltivati
nella “bassa bolognese”. Dopo una trentina di anni l’avvenimento
mutò il nome in “Serate sul Navile” fino a quando nel 2012 si
costituì un nuovo comitato organizzatore, denominato “Associazione
Amici dell’Ortica di Malalbergo”. I nuovi organizzatori
cambiarono ancora una volta il nome della festa paesana,
denominandola “Sagra dell’Ortica” , in onore di una pianta
infestante molto “bistrattata” che per diversi
secoli, con la sua fibra estratta dagli steli, vestì le popolazioni
della “bassa bolognese” molto prima dell’arrivo della canapa.
Nel suo piccolo, sfamò pure diverse generazioni con le sue foglie
(trattate in acqua bollente) e soprattutto curò e protesse da
diverse malattie con le sue proprietà benefiche, quasi sempre
all’insaputa degl’ignari “pazienti”. Prima di inoltrarci
nella ricetta di questa deliziosa tagliatella, che accoglie l’ortica
nella sua sfoglia, desidero fare una breve introduzione sulla materia
prima, spiegando le proprietà di questa piata urticante che dà il
classico colore verde alla sfoglia.
Scritto in Gastronomia in Emilia Romagna | Malalbergo/Altedoleggi tutto | letto 1823 volte
Inserito da redazione il Mar, 2017-08-29 06:01
A
tavola in Emilia-Romagna. Pasta e fagioli. Ricerca di Giulio Reggiani
Uno
dei piatti tipici delle zone fra bolognese e ferrarese
è senza dubbio la pasta cotta nel brodo di fagioli. Veniva chiamato
familiarmente “pasta in fagioli” e lo si poteva
mangiare assai spesso nelle case coloniche, sulle tavole di paesi e
città, oltre che nelle trattorie; anche le osterie, particolarmente
nell’Ottocento, lo proponevano ai loro avventori, ma lo si trovava
di frequente pure sulle tavole dei braccianti di queste zone, in
quanto costituiva una vivanda molto energetica: poi immancabilmente
gli s’inzuppava il pane e si andava così a costituire un
particolare “piatto unico” tipico di tutto quel mondo padano che
oggi va sotto il nome di civiltà contadina.
Rappresenta
tuttora una portata molto gradita nelle trattorie della nostra
pianura e pure i ristoranti più “sofisticati” propongono ai loro
clienti questo “primo piatto”, magari accoppiandolo a qualche
raffinato abbinamento da nouvelle cuisine (però, così
facendo, a mio avviso lo rovinano grandemente). Dobbiamo dire che
sulle nostre tavole lo si mangia assai raramente, perché la frenesia
della vita attuale non lascia il tempo materiale alla sua
preparazione; soltanto le massaie un po’ attempate o le nonne
“nostrane” possono ormai prepararlo con perizia: le giovani lo
prendono “già pronto” nei supermercati, in lattina o in busta,
ma queste “manipolazioni” non possono certo competere con la
fragranza ed il sapore della pasta in fagioli “fatta in casa”.
- Andiamo
ora a conoscer meglio i fagioli, anche facendo due passi nella
storia.
Il
fagiolo
Questa
pianta, che Linneo classificò scientificamente come Phaseolus
vulgaris, appartiene alla famiglia delle Fabacee (o
Leguminose) e tutte le fonti la segnalano come originaria
dell’America Centrale; essa arrivò in Europa dopo la
scoperta delle Americhe, diffondendosi per la facilità di
coltivazione e per l’ottima resa sul campo. Il fagiolo è coltivato
per i suoi semi, che vengono raccolti freschi e che poi vengono
sbucciati (i cosiddetti “fagioli da sgranare”); possono anche
esser lasciati seccare ed i fagioli secchi hanno un buon utilizzo,
particolarmente nella stagione fredda. Si può raccogliere anche
l’intero legume “giovane”, da mangiarsi fresco (sono i
cosiddetti “fagiolini”). Le varietà del Phaseolus
sono veramente innumerevoli: fra le tante, citiamo soltanto le più
conosciute: il borlotto (con i suoi generi, detti
“Lingua di fuoco”, “Suprema” e “Di Vigevano”,
aventi tutti la variante “nana”), il cannellino
(che si differenzia in “Scaramanzin negrè” e “Lingot”),
il Corona di Spagna, il Romano Pole, il Maggiolino, l’Elegante,
assieme a moltissimi altri.
- Ma
diamo un’occhiata anche al più famoso e ricercato fra quelli
“nostrani”.
Scritto in Gastronomia in Emilia Romagna | Malalbergo/Altedoleggi tutto | letto 2563 volte
Inserito da redazione il Dom, 2017-06-04 07:42
Il
risotto alla folaga. Ricerca di Dino
Chiarini
Prima
di presentare il tradizionale piatto delle zone palustri della bassa
bolognese, effettuo una breve carrellata sui due principali
ingredienti che compongono questa ricetta e il ristorante dove si può
ancora degustare questa delizia del palato.
CONOSCIAMO
UN PO' IL RISO
Il
riso si era affermato in Italia fin dal Trecento; inizialmente questo
cereale era considerato una spezia e veniva venduto per scopi
terapeutici e quasi certamente veniva importato. Il primo documento
che dimostra la coltivazione del riso in Italia porta la data del
1475 ed è la lettera scritta da Galeazzo Maria Sforza al Duca di
Ferrara in cui egli si impegnava ad inviargli dodici sacchi di riso
locale. Quindi la produzione alimentare del riso iniziò in Lombardia
e pian piano si estese nelle zone ricche di acqua della pianura
padana; con la diffusione delle risaie si ebbe un aumento di casi di
malaria e nonostante i provvedimenti che cercavano di limitare la sua
coltivazione nelle vicinanze dei luoghi abitati, la coltura si
espanse ugualmente. Questo avvenne poiché rispetto agli altri
cereali il guadagno sul riso era molto più consistente; anche i
coltivatori, pur a rischio di malattie, continuarono a produrlo ed a
diffonderlo anche in Emilia.
Ecco allora che nel XVII secolo le aree
di coltivazione del riso si dilatarono grandemente: veniva coltivato
in Piemonte, Lombardia, Emilia, Toscana e persino in qualche zona
della Sicilia e della Calabria. Nell’Ottocento anche il territorio
comunale di Malalbergo, assieme a quelli limitrofi di Baricella, di
Bentivoglio e di Molinella, era “ricco” di zone umide e così da
fine secolo molti terreni vennero adattati a risaia; nei primi anni
del Novecento la coltura si consolidò e molti appezzamenti, anche
grandi, furono adattati alla coltivazione del riso, una pianta che
richiedeva moltissima acqua per la crescita. Non mancavano vaste aree
vallive e in questi due habitat naturali, la palude e la risaia,
flora e fauna crescevano rigogliose; la parte più consistente della
fauna era costituita da selvaggina aviaria. Su questi terreni
acquitrinosi molte specie di volatili, sia stanziali sia migratori,
si nutrivano abbondantemente e nidificavano nella fitta vegetazione.
Tra le diverse specie di uccelli presenti in queste zone paludose,
quelle che andavano per la maggiore erano costituite da anatidi
(anatre) e da rallidi (folaghe e gallinelle d’acqua). In cucina,
generalmente con le anatre venivano preparati gli arrosti oppure
venivano bollite per fare il lesso1, mentre le folaghe venivano
abbinate al riso, con cui formavano un delizioso connubio. Le
sapienti mani della nostra donna di casa, l’“arzdòure”,
cuocevano la folaga e poi la univano al riso: solitamente
utilizzavano l’Arborio, l’Originario. Il Balilla e la Razza 77,
che erano le qualità più coltivate delle risaie malalberghesi negli
anni Trenta-Quaranta del secolo scorso e che ben si collegavano al
condimento costituito dalla fòlaga. Il risultato finale era un
“trionfo gastronomico” degno di Cristoforo da Messisburgo, il
famoso cuoco della Corte Estense. Il matrimonio, in tal modo,
risultava perfetto nell’aspetto ed eccellente nel gusto.
…
E CONOSCIAMO ANCHE LA FOLAGA (… e la gallinella d’acqua)
Scritto in Gastronomia in Emilia Romagna | Malalbergo/Altedoleggi tutto | letto 1608 volte
Inserito da redazione il Dom, 2017-06-04 07:12
I
biscotti del Re . Storia
e ricetta.
Il
6 giugno 1918 Vittorio Emanuele III, Re d’Italia, dopo aver
visitato gli impianti idrovori di Argenta e di Molinella, si recò ad
Altedo per vedere un nuovo metodo di aratura funicolare in risaia
con nuove apparecchiature, mosse non più da locomobili a vapore ma
da moderni motori elettrici. Il corteo che accompagnava il Re giunse
ad Altedo verso le ore 10 e si fermò vicino al mulino di
proprietà del Sindaco di Malalbergo Zeno Pezzoli, il quale,
non essendo ancora pronto, fece attendere il sovrano. Per alleviare
l’imprevisto contrattempo, la figlia del Primo Cittadino prese da
un vaso, collocato sulla tavola, un mazzo di fiori ed uscì di casa
porgendolo repentinamente al Re; l’acqua ancora presente sui gambi
bagnò i pantaloni del sovrano. Il ritardo causato dal sindaco, che
rallentava i tempi sempre rigorosi del cerimoniale, come pure i
pantaloni bagnati al Re, non rappresentavano certamente i pròdromi
di un’ottima accoglienza. Ecco allora che la madre del Sindaco, la
signora Geltrude “Tuda” Martinelli, visto
l’imbarazzo del seguito reale, intervenne prontamente offrendo ai
presenti la sua “classica” specialità: un particolare tipo di
biscotto, assai simile alle gallette che i soldati consumavano al
fronte. Quelli offerti ai presenti, erano dolcetti creati veramente
da lei, un po’ dolciastri e un po’ amarognoli, farciti con
mandorle e cotti al forno; erano anche un po’ croccanti e
spolverati con zucchero di vaniglia. Al Re piacquero moltissimo,
tanto che chiese alla signora se ne avesse ancora, poiché intendeva
portarli a San Rossore per farli assaggiare ai propri figli. Propose
poi alla signora “Tuda”, se lo avesse gradito, il
“Brevetto della Real Casa” per questi biscotti; ma ella
rifiutò, rispondendo che i biscotti erano stati fatti esclusivamente
per Sua Maestà e non per essere messi in commercio. Prese quindi un
tovagliolo, lo riempì di quel suo personale prodotto, legò i
quattro capi alla campagnola e glieli offrì, dicendo che così erano
pronti per essere mandati ai figli del Sovrano; domandò però a
Vittorio Emanuele III di poterli chiamare “Biscotti del Re”.
E questi esaudì il suo desiderio.
Sulla
visita regale ad Altedo e sulla nascita dei “Biscotti del Re”
esiste un’altra versione orale, “molto meno patriottica”
della precedente ma forse più veritiera; essa narra che le
cuoche addette al rinfresco, nell’agitazione dell’avvenimento,
avessero sfornato quel tipo di ciambella troppo presto e che
l’avessero “affettata” per finir di cuocerla una seconda volta,
come i biscotti (etimologicamente “bis-cotto”, cioè “cotto due
volte”). Fatta quest’ultima operazione, l’avevano spolverata di
zucchero a velo per “mimetizzare” l’errore della prima cottura.
E così la disattenzione iniziale si tramutò in un prelibato
biscotto, che ancora oggi viene preparato e servito in tutte le
occasioni nella zona di Altedo.
Ecco
la ricetta De.C.O. *
Scritto in Gastronomia in Emilia Romagna | Malalbergo/Altedoleggi tutto | letto 2574 volte
Inserito da redazione il Sab, 2016-12-17 07:23
La “Pastulàze … e la Méche ad Malalbêrg” (La “Pastolaccia … e la Micca di Malalbergo”) Storia e ricette
1) La “Pastolaccia” (“Pastulàze” in dialetto locale) è una ciambella tipica malalberghese che utilizza gli stessi ingredienti del più noto biscotto “Savoiardo”: però gli è differente per la sagomatura, in quanto viene tagliata a fette trasversali, come il “Cantuccio” toscano o come il “Biscotto del Re” altedese. In verità la “Pastulàze”, rispetto a quest’ultimi due dolcetti, è priva di mandorle e di burro, componenti indispensabili sia per il “Cantuccio”, sia per il “Biscotto del Re”. Secondo i racconti a noi tramandati oralmente dalle anziane signore malalberghesi (che a loro volta le avevano appresero dalle loro nonne) questo composto, fatto solo con farina, zucchero, uova e un po’ di lievito, risale alla seconda metà dell’Ottocento. Pare che l’idea fosse venuta ad un fornaio malalberghese che l’attuò dopo aver esaminato varie ricette suggeritegli dai viaggiatori (provenienti da diverse provincie italiane ed anche da svariati paesi europei), che qui transitavano per raggiungere le città di Bologna, Ferrara e Venezia. Essi spesso si rifocillavano nel suo laboratorio, in attesa che la diligenza cambiasse i cavalli nell’adiacente posta: quindi, fra una chiacchiera e l’altra, gli esponevano le prelibatezze delle loro regioni d’origine.
Il panettiere, da quell’impasto da lui stesso inventato, ottenne una deliziosa ciambella di un bel colore giallo; scoprì pure che, intingendola in un bicchiere di vino dolce, risultava ancor più gradevole al palato.
Non vi sono prove scritte che dimostrino la veridicità di questa “leggenda paesana” poiché la data di nascita della “pastulàze” rimane incerta; però sicuramente nei primi anni del Novecento era già presente in paese: infatti, nel 1905 il forno della neonata Cooperativa Agricola di Consumo iniziò a produrre quotidianamente quella squisita “brazadèla” (ciambella). Il prodotto così ottenuto comparve anche sulla tavola delle osterie locali, ottenendo un grande successo. “L’Antica Trattoria della Luna” (oggi “Trattoria Nuova Maleto”), l’“Osteria del Ponte sul Reno” (posta sull’argine destro del fiume e demolita negli anni Quaranta del secolo scorso) e la “Trattoria dei Cacciatori” (ora denominata “Trattoria Rimondi” dal cognome dei proprietari) fecero di questo dolce il loro cavallo di battaglia. Infatti, quella ciambella, che richiedeva sempre il “nettare di Bacco” per intingerla, faceva aumentare anche la vendita del vino.
La pastolaccia fu pure apprezzata dalle famiglie, tanto che anche l’altro forno presente in paese iniziò a produrre questo dolce tipico; le nostre bisnonne la chiamavano semplicemente “ciambella magra tagliata a fettine”, utilizzando la stessa ricetta inventata dal fornaio.
Le “massaie malalberghesi”, dopo aver assaggiato quel dolce così semplice da allestire, iniziarono a preparare il composto tra le mura domestiche; siccome molte case per cuocere avevano solo il camino, che non era adatto a questo tipo di cibi, portavano l’impasto presso il forno di fiducia; qui terminavano la lavorazione versando il preparato in una teglia capiente (preventivamente unta con appena un filo di olio e cosparsa con un po’ di farina o pane grattugiato per non far aderire il composto). Successivamente lo suddividevano in “pani” e consegnavano al fornaio il prodotto già pronto che egli sapientemente portava a cottura.
Scritto in Gastronomia in Emilia Romagna | Malalbergo/Altedoleggi tutto | letto 1515 volte
Inserito da redazione il Sab, 2016-12-17 06:41
La pasta ripiena ha una lunga tradizione in tutta l’Emilia-Romagna; molti cronisti cittadini ci testimoniano che questi particolari manicaretti erano già presenti sulle tavole di nobili e borghesi fin dal tardo Medioevo e che erano in gran voga in tutto il Rinascimento; i banchetti, nelle Corti Signorili, erano occupati da svariate forme di “pasta farcita” assai simili a quelle odierne ed anche realizzate con inusitata modernità: si potrebbe dire che erano -quasi- “come le facciamo noi oggi”.
Cristoforo Messisburgo, il famoso cuoco della Corte Estense, ci ha tramandato tantissime ricette legate ai banchetti che, per dovere (politico) o per diletto, si tenevano a Ferrara: fra queste figurano pure numerosi “impasti”, da lui cucinati per gli ospiti.
La pasta ripiena è sempre stata concepita come un “involtino”, fatto da un involucro di sfoglia contenente una “farcitura”: questa ne costituisce il cuore “apportatore di sapore”, il quale, poi, conferisce il suo particolare gusto a tutto il piatto.
Per quanto riguarda la sfoglia, cioè il contenitore del ripieno, si può dire che abbiamo una completa uniformità regionale riguardo la sua composizione ed il modo di prepararla; la vera differenza sta appunto nella “parzializzazione” della stessa, cioè nelle dimensioni del quadratino -o del rettangolino- preposto ad accogliere e sigillare al suo interno la farcitura.
L'involucro della pasta ripiena, cioè la sfoglia, è la stessa che dà origine a vari tipi di pasta da cuocere, il più conosciuto dei quali, nella regione Emilia-Romagna, è la tagliatella. Come dice la parola stessa, è il modo e la misura del taglio che ne determina il nome: ad esempio, nell'Italia centrale e particolarmente nel Lazio, il nome è fettuccina, che letteralmente dà l’idea di una striscia né troppo sottile né troppo larga (infatti è il diminutivo di fettuccia) mentre in tutt’Italia la pappardella ci indica che esiste una certa consistenza nella sua larghezza. Riguardo la tagliatella, è nata la leggenda che ad inventarla fosse stato Mastro Zefirano, famoso cuoco personale di Giovanni II Bentivoglio ed incontrastato “chef” dell’epoca nella Corte bolognese, il quale tentò di riprodurre “gastronomicamente” i capelli biondi di Lucrezia Borgia, prossima Duchessa di Ferrara; ciò sarebbe avvenuto nel suo breve soggiorno al castello di Ponte Poledrano (l’odierno paese di Bentivoglio, in provincia di Bologna) dal 28 al 31 gennaio 1502, ospite del Signore della città felsinea ed alleato di Alfonso d’Este a cui, dopo pochi giorni, sarebbe andata sposa.
In realtà la storiella dell’origine “lucreziana” della tagliatella venne inventata di sana pianta dal budriese Augusto Majani, in arte “Nasica” [Budrio (BO) 30 gennaio 1867 – Buttrio (UD) 8 gennaio 1959] che era sì un celebre pittore, illustratore e vignettista, ma anche un altrettanto famoso burlone.
Scritto in Gastronomia in Emilia Romagnaleggi tutto | letto 1401 volte
Inserito da redazione il Mer, 2016-12-14 17:09
